Susanna Camusso:
la libertà femminile
misura la democrazia

Ringrazio Verona perché costretta ad ospitare il Congresso mondiale della famiglia, sta rivelando una straordinaria vivacità e differenza che è data da noi, le tante donne e i tanti uomini che sono qui e nelle altre iniziative che si stanno svolgendo in città. Certo Verona ha tanti problemi non è quella città che tentano di rappresentare. Per parlare del lavoro vorrei partire da due affermazioni e poi provo a spiegarmi. La prima è: abbiamo combattuto molto e a lungo nel nostro Paese affinché la democrazia entrasse nei luoghi di lavoro, perchè fabbriche, negozi, uffici non fossero luoghi nei quali non vigevano le stesse regole che sovrintendono la vita del Paese: la Costituzione. Ora dobbiamo fare un passo in più, dobbiamo aggiungere un tassello: perché si parli davvero di democrazia, la libertà delle donne deve esserne unità di misura.

Se assumiamo la libertà femminile come unità di misura della democrazia, coloro che stanno da un’altra parte e si riuniscono in nome della “famiglia naturale”, non sono solo oscurantisti, sono portatori di un modello autoritario e totalitarista della società. Lo dico perchè troppo spesso la libertà femminile viene definita “tema delle donne”. No, non è il tema delle donne. E’ questione che attiene alla qualità della vita di chiunque pensi che la sua diversità sia una ricchezza. Io sono orgogliosa di essere una donna e come tale di essere diversa. E rivendico la mia diversità perché rifiuto qualunque forma di omologazione. Nel momento in cui si omologano le persone le si sottomette al potere di qualcuno.

La seconda cosa che vorrei dire è: si possono cambiare le cose anche quando siamo costrette a difenderci? E’ chiaro che noi oggi stiamo difendendoci, stiamo difendendo le nostre conquiste, le nostre differenze, ciò che abbiamo affermato per la nostra libertà. Temo molto quando ci si immagina solo di difendersi, perché in qualche modo si è preda dell’idea che ciò che si ha sia sufficiente. No, non è sufficiente. Noi non abbiamo raggiunto quella libertà che dovrebbe caratterizzare il riconoscimento come persone, che vengono rispettate come tali, che non hanno nulla di meno rispetto agli altri. E allora, parlando di lavoro, la cosa che vorrei proporre non è difendere ma provare ad andare avanti.

Per andare avanti occorre, allora, dire e ripetere perché lo si fa troppo poco, che le donne sono più ricattate di quanto non lo siano gli uomini. E sono ricattate innanzitutto sul piano della precarietà, dei part time obbligati, delle ore di lavoro che diminuiscono quando cambia un appalto. Sono ricattate perché il loro bisogno di autodeterminarsi sul lavoro si scontra con il fatto che i pregiudizi sono infiniti. Dobbiamo partire da questo elemento, i pregiudizi. Vorrei dirlo anche al fronte di donne che si è costituito in Parlamento e ha fatto battaglie importanti sul “ Codice rosso”: esiste un’altra battaglia importante da compiere, fondamentale per le donne: occorre ricostruire l’illegittimità dei licenziamenti ingiustificati, ricostruire la tutela. Proprio lì si annida tanta parte della ricattabilità.

E vorrei ricordare che esistono sì diritti universali ma si possono esercitare in modo differente e questo significa che esiste un’ulteriore discriminazione che si somma a quella che si esercita normalmente. La contrattazione può fare molte cose. La prima, può costruire un nostro sapere rispetto ai cambiamenti che ci sono. Ci raccontano che la digitalizzazione sarà straordinariamente meravigliosa. Non è vero, la digitalizzazione può essere tante cose differenti, non è neutra, bisogna governarla. Noi, le donne, abbiamo una straordinaria forza rispetto alla digitalizzazione ma nessuno ce lo racconta. E la prima forza che abbiamo è che la digitalizzazione si fonda sui dati, e tanta parte dei dati che vengono utilizzati, per regolare gli orari, per decidere i turni, per classificare le persone, li forniamo noi, le donne. E’ quel che accade quando consumiamo, quando acquistiamo, quando ci occupiamo della cura di altri e altre, quando utilizziamo strumenti e mezzi.

Pensiamoci, e riflettiamo a come utilizzare informazioni e dati che forniamo per determinare un’altra regola ad esempio nell’organizzazione del lavoro. Non è detto, ad esempio, che debba essere fatta per forza a partire dai part-time involontari. Può e deve essere basata sul nostro sapere di lavoratrici. Discutiamo di organizzazione del lavoro, non ne esiste una data in natura. E non è affatto detto che l’organizzazione del lavoro maschile sia quella migliore, sia quella che fa stare bene tutti. Spesso fa star bene solo una parte e quindi fa star male tutti. E poi, spesso quando diciamo contrattazione subito qualcuno suggerisce politiche di conciliazione.

Certo sappiamo bene che affinché vi sia una partecipazione davvero libera delle donne al mercato del lavoro, occorre che il lavoro di cura sia realmente suddiviso. Qualunque statistica esaminiamo scopriamo che le donne, anche quelle che scelgono di non lavorare fuori casa, lavorano molto più degli uomini in termini di tempo dedicato. Le donne dedicano tempo alle cure, alle famiglie, dedicano tempo a tenere insieme, a dare senso alle relazioni. In questi anni di crisi, le donne, hanno dedicato grandissimo tempo ed energia per garantire quel welfare che le politiche pubbliche progressivamente hanno e stanno depauperando. Da questo punto di vista possiamo declinare la parola condivisione con la parola conciliazione.

Troppo spesso, però, conciliazione diventa un ulteriore carico sulle lavoratrici e la sanzione del fatto che possono crescere i pregiudizi sulla loro instabilità e inaffidabilità al lavoro. Allora bisogna invertire. Non mi basta dire che c’è il congedo di paternità, io chiedo che vi sia un congedo di paternità obbligatorio in tempi differenti da quello per maternità, che sia retribuito in modo significativo e che diventi l’esemplificazione che un figlio non è il costo del lavoro di una donna ma è un carico che complessivamente si assume la società. Noi sappiamo bene che soprattutto i primi giorni di vita del bimbo c’è una grande panico, cosa si può e cosa si deve fare per il nuovo esserino, e quindi capisco il senso dei 5 giorni di congedo contemporaneo tra papà e mamma. Ma passati quei 5 giorni si torna al tradizionale calcolo dei costi aziendali del congedo, sono i costi di una lavoratrice. Bisognerebbe cominciare a dire che sono costi di genitorialità. Non è sufficiente riferirsi alla famiglia, bisogna affermare che è questione che attiene all’organizzazione del lavoro. Bisogna fare una politica della conciliazione che non sia la nuova strada della segregazione.

La terza questione riguarda la formazione. Non c’è dubbio che sia fondamentale, ma non deve riguardare solo gli ingegneri o le competenze tecniche. Vorrei che si cominciasse a dire che la formazione riguarda quella lavoratrice che all’alba va in un ufficio e lo rende pulito e accogliente. Vorrei dire che la formazione dovrebbe riguardare quella lavoratrice che guarda i clienti del supermercato farsi il conto da soli perché è stata abolita la cassa e con essa la sua funzione. Insomma la formazione dovrebbe essere una straordinaria opportunità per non lasciare il doppio esame per le donne (a cui siamo sempre sottoposte) ma la consapevolezza delle proprie competenze, della qualità del proprio lavoro, del sapere interagire con ciò che succede.

Dobbiamo costruire una politica della formazione, che finora non esiste. Questo è un Paese nel quale tutti parlano di formazione senza accorgersi dell’esistenza di milioni di lavoratori e lavoratrici che non sanno nemmeno cosa significa fronteggiare l’innovazione. Occorre pensare alla qualità della formazione e dobbiamo farlo su una base che non sia discriminatoria, che non presupponga che se si è uomo si ha comunque una possibilità di posti da ottenere senza esami o verifiche mentre per le donne questo non accade. Occorre costruire una logica differente da quella che parte dal presupposto che un uomo ha maggior tempo e disponibilità non occupandosi della cura delle persone con le quali è in relazione affettiva. Il rapporto con il tempo è fondamentale.E dinnanzi a noi abbiamo uno straordinario problema: ci viene raccontato che l’occupazione è tornata a crescere, ma se si leggono bene tabelle e numeri si scopre che le ore lavorate sono molto meno di prima della crisi. Part- time, precarietà, contrazione delle ore degli appalti. E guarda caso sono molte le donne in queste situazioni. Non è vero che siamo tornati all’occupazione di prima della crisi. E’ vera un’altra cosa, esiste una parte di mondo del lavoro che ha un orario quasi illimitato, e una parte di mondo, spesso femminile, che insegue la ricerca delle ore per riuscire ad avere una retribuzione decente per autodeterminarsi.

Il tempo del lavoro deve essere giusto e coerente con il resto della vita. Ma non è la quantità di tempo che ti rende un buon lavoratore, una buona lavoratrice. È la qualità di quel che si fa, la qualità delle relazioni, la qualità degli strumenti che si utilizzano. Condividiamo il tempo, quello di cura, quello degli affetti ma anche quello del lavoro. Solo così non ci sarà una lavoratrice costretta a chiedere il part-time per conciliare. Ma saremo tutti in grado davvero di conciliare la nostra vita e questo vorrà dire aver fatto un passo avanti nella libertà di tutte e tutti. Non aspettiamo tempi migliori perché quelli che stanno nell’altra sala, ma soprattutto quelli che stanno al governo non hanno un’idea di tempi migliori, hanno bisogno di determinare rapporti di potere. Dobbiamo scardinare anche a partire dal lavoro quei meccanismi che sono di potere di pochi e di subalternità dell’altra metà del mondo. Perché lavoro libero sta insieme con l’essere libere!