Superman e le paure degli immigrati
Leggendo “Anche Superman era un rifugiato” mi è tornata in mente la storia recente rimbalzata dall’Australia – paese non certo benevolo verso chi tenta di approdare sul suo territorio – di Behrouz Boochani, un curdo iraniano in cerca di asilo, intercettato nel suo viaggio dall’Indonesia verso l’Australia e imprigionato in un’isola “off-shore”, cioè in una prigione al largo delle coste. In quest’isola prigione, nella sua lunga detenzione, ha scritto (con messaggi di testo) “No Friend but the Mountains” che ha vinto il più ricco premio letterario australiano. Il paradosso è che Behrouz Boochani non ha potuto ritirare quel premio perché immigrato clandestino, detenuto sino a quando non sarà chiarito il suo status (forse) di rifugiato. La sua storia (autobiografica) vince, la sua vita di esule è, invece, imprigionata.
Sono i terribili paradossi di un mondo che dimentica i talenti, scorda l’umanità e tratta i richiedenti asilo, chi cerca un rifugio e una terra dove vivere, come una minaccia alla propria esistenza.
Nel bel libro “Anche Superman era un rifugiato”, voluto dall’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), edito da Il battello a vapore, numerosi scrittori si cimentano in un confronto tra storie di ieri e di oggi, tra illustri rifugiati e esuli contemporanei che cercano un’esistenza lontano da guerre, persecuzioni e fame.
Ed ecco il confronto tra il mitico Enea in fuga da Troia che approda nelle nostre terre e i giovanissimi profughi dei giorni nostri che fanno parte del Progetto “Diamo rifugio ai talenti” dell’università di Pavia. C’è la storia di Mercy Akuot, giovanissima sud-sudanese di etnica dinka, che fugge da un matrimonio combinato quando è ancora quasi una bambina e approda in Kenya, al campo per rifugiati di Kakuma, uno dei più grandi al mondo. “Si può scappare da qualcosa, oppure verso qualcosa”, trasformare la fuga in opportunità, avverte Davide Morosinotto, uno degli autori di questa raccolta collettiva di voci e pensieri, citando Joseph Conrad, anche lui rifugiato, grande viaggiatore e scrittore. C’è il viaggio dall’Etiopia a Verona di Dagmawi Yimer che racconta Igiaba Scego, quello di Alaa Arsheed e del suo amico, legati da complicità di versi e di canzoni riportato da Paolo Di Paolo. Ci sono storie e ancora storie perché dietro ogni individuo che approda in Occidente, c’è un vissuto che non vogliamo conoscere e che quest’opera cerca di narrare.
Le storie delle loro esistenze si intrecciano sempre a quelle del viaggio che non dura un’ora, un giorno, una settimana ma mesi, talvolta anni ed è fatto di pericoli e di paure. Scrive Carlotta Sami, portavoce Unhcr per il Sud Europa, nell’introduzione al volume collettivo: “una rifugiata qualche giorno fa mi ha detto ‘la paura è il più grande ostacolo per noi’. Ma non intendeva la sua, di paura, bensì quella che gli altri hanno dei rifugiati e delle rifugiate”. E’ questo il sentimento che si erge come un muro invisibile eppure solidissimo, a separare vite e a anestetizzare i sentimenti verso chi chiede non di essere accolto o integrato ma semplicemente incluso.
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