Riprendiamoci la maternità, per un nuovo patto tra donna e uomo

Faccio parte dell’Associazione di donne Se Non Ora Quando – Libere, nata dalla grande manifestazione del febbraio 2011, che portò nelle piazze italiane più di un milione di persone chiedendo di porre le donne al centro dei problemi di sviluppo civile, sociale ed economico del Paese. Nel corso degli anni, l’Associazione ha lanciato diverse campagne dirette alla società, alla politica e alla cultura. Segnalo qui la campagna “Mai più complici” contro la violenza sulle donne, vista non più come una questione di solo donne, ma di una società nuova abitata da donne e uomini, uguali ma differenti; la campagna “Riprendiamoci la maternità”, per essere madri in piena libertà, senza che ciò impedisca la piena realizzazione di sé.

Con quest’ultima campagna, dunque, si vuole mettere al centro una nuova idea di convivenza civile e la necessità di un patto tra donne e uomini. In questo senso i bassi tassi di fecondità nel nostro Paese sembrano essere un potente indicatore del fatto che oggi siamo di fronte ad un nuovo e diverso assetto sociale, al cui interno va collocata e valorizzata la scelta di una donna di generare figli. La decisione di mettere al mondo un/a figlio/a è sicuramente qualcosa di personale e responsabile, ma è anche una scelta che coinvolge una comunità, una Nazione. Ciò concretamente vuol dire ripensare gli strumenti pubblici a sostegno delle donne con particolare riferimento a quelli della cura, del lavoro e della condivisione.

Proprio alla luce di questo, il significato di “Riprendiamoci la maternità” è anche quello di un netto “no” alla pratica della maternità surrogata e all’irruzione delle biotecnologie sul significato profondo dell’essere umano e del corpo della donna. L’evoluzione della tecnica contemporanea è un aspetto cruciale della più importante questione politica del nostro tempo, quella del senso stesso della vita umana. Qui c’è urgente bisogno di capire che cosa essa intenda esprimere sui principi e valori fondanti della nostra civiltà: la dignità umana e l’indisponibilità del corpo umano. Ora appare evidente che attraverso la pratica della maternità surrogata si cerca di imprimere una profonda trasformazione sul significato della vita dell’essere umano e sull’utilizzo a fini altrui del corpo delle donne e della vita dei bambini.

Tale forma di procreazione, infatti, è realizzata da imprese che si occupano di riproduzione umana in un sistema organizzato di produzione. Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione in modo che la gravidanza e il parto diventino delle procedure funzionali, dotate di un valore d’uso e di scambio, e s’iscrivono nella cornice della globalizzazione dei mercati. La maternità surrogata non è altro che l’irruzione nell’atto procreativo della donna e la sua riduzione al rango di prodotto scientifico, artificiale e programmato da e per altri. Con questa pratica l’idea stessa di vita come relazione, spontaneità, sentimenti e capacita di riprodurre sé stessi, viene stravolta e messa al servizio del desiderio di onnipotenza di altri.

Questo desiderio di onnipotenza che prende e fa ritenere di non dover trovare ostacoli alla realizzazione della propria libertà è stato devastante per l’ambiente e la natura e adesso rischia di esserlo anche per il destino dell’essere umano. E’ evidente che la pratica della maternità surrogata contraddice la linea di tendenza dei valori condivisi che sono alla base della convivenza tra donne e uomini, uguali ma differenti, primi fra tutti la dignità umana, rendendo all’origine impossibile o puramente formale tanto il riconoscimento della dignità delle donne e dei bambini, quanto la relazione donna-uomo come elementi costitutivi della convivenza.

Dare alla vita un essere umano, futuro cittadino, è tutt’altra cosa dal donare un organo o donare il sangue. Qui vi è anche una contraddizione evidente tra lo sviluppo della ricerca medica che parla dei legami e degli scambi, sia biologici che affettivi, tra la madre e il figlio nei nove mesi di gestazione e l’utilizzazione di una tecnica che li nega. E così arriviamo al punto: in nome di presunti diritti individuali si può arrivare ad immaginare di cannibalizzare il senso stesso della vita umana? Mettere a disposizione il proprio utero non è un atto di libertà e autodeterminazione femminile, perché non c’è realmente autodeterminazione quando a essere sfruttate sono le donne più povere del mondo e quando c’è di mezzo un terzo soggetto, il bambino, che non può dire la sua.

Insomma, bisogna riflettere bene anche sul significato di libertà: la libertà non è infinita, esistono limiti. In nome di essa non si può mettere in questione la dignità e la salute di altre e altri. Il punto, allora, è di analizzare attentamente i processi che innescano le nuove tecniche per governarli nell’interesse di tutte e tutti. Questo deve poter significare anche superare l’idea di “progressismo individuale”, dando priorità al tema del limite e del legame umano, e alla necessità di mediazioni alte in difesa dell’umanità, della convivenza e della qualità della democrazia.