Sull’Ucraina dialogo tra sordi, Mosca “sospende” lo START
La mattina il discorso di un’ora e quaranta minuti di Vladimir Putin: concetti duri quanto i parlamentari irrigiditi in stile sovietico d’antan che lo ascoltavano. Il pomeriggio la risposta – a volerla considerare tale – di Joe Biden in una colorata kermesse di bandiere, bandierine, bambini e musiche pop sotto l’austero castello di Varsavia, mentre a Kiev Volodymyr Zelensky e Giorgia Meloni aspettavano che l’americano smettesse di parlare per prendersi la scena con la loro conferenza stampa. Nell’incontro con i giornalisti, scontata la ferma e sincera concordanza di idee e di visioni tra i due capi di governo, il leader ucraino sollecitato dalla domanda di un’inviata italiana, ha conciato per le feste Silvio Berlusconi di fronte all’ospite che non sapeva, in quel momento, dove guardare. Berlusconi – ha detto Zelensky – può parlare come parla perché ha la fortuna di non essere bersaglio di missili o di carri armati che gli entrino in casa visto che il suo caro amico di Mosca non glieli manda…
Insomma, una giornata di parole, di incontri, di scontri quella di ieri ma in cui, nella sostanza dei fatti, è successo poco. Si aspettavano indicazioni sulle prospettive della guerra, e magari (per gli ottimisti malgrado tutto) della pace, e invece nessuna certezza è venuta a un’opinione pubblica nella quale almeno in occidente si diffondono percepibili preoccupazioni su che cosa succederà in futuro con la crisi in Ucraina.
Per quanto riguarda i protagonisti e le loro posizioni c’è stato un unico elemento di novità e non è certo positivo: l’annuncio di Putin, precipitevolmente sancito con un’apposita legge ieri stesso dalla Duma, della “sospensione della partecipazione russa” allo START, l’ultimo trattato in vigore sulla riduzione delle armi nucleari strategiche firmato nel 2011 tra Stati Uniti e Federazione russa. Sul piano pratico la sospensione cambierà ben poco: in sostanza solo l’interruzione delle visite di controllo di ispettori di Washington sui siti di produzione russi (per controllare i quali gli americani hanno peraltro ben altri strumenti), ma il segnale politico è chiaro. Tanto più che l’uomo del Cremlino lo ha inserito nell’ultima parte del suo chilometrico discorso, quella in cui dopo aver spiegato che la guerra l’hanno cominciata “i neonazisti” ucraini cui la NATO e gli americani sarebbero stati pronti a fornire pure armi nucleari e che le forniture di armi sempre più sofisticate agli ucraini ha portato la guerra a mettere in gioco “l’esistenza stessa della Federazione russa”. Prospettiva per contrastare la quale – ha ribadito – l’arsenale di Mosca è efficiente e ammodernato al 90% e la risposta atomica sarebbe inevitabile se l’integrità della Russia venisse compromessa. Il concetto è chiaro ma del tutto vago per quanto riguarda la questione del dove si collocherebbe la linea rossa. Il territorio della Federazione prima del 24 febbraio dell’anno scorso? I territori annessi dopo, più volte proclamati territori russi anch’essi? Solo il Donbass? La Crimea?
Costumi “sani” e “malati”
Dai pochi cenni che ne abbiamo fatto risulta che il discorso del capo del Cremlino non conteneva il benché minimo accenno non solo all’esistenza ma neppure alla possibilità di qualsivoglia spiraglio per l’apertura di colloqui non solo di pace ma neppure di più modesti cessate-il-fuoco. Gli argomenti di Putin sembravano essere tutti rivolti al fronte interno, a rassicurare l’opinione pubblica di casa sul fatto che la guerra non sta portando il paese alla rovina: le sanzioni occidentali non hanno sconquassato l’economia, il rublo è forte, si sta mettendo in piedi un sistema di welfare speciale di guerra. E soprattutto i fondamenti dello stile di vita e della cultura popolare della Russia sono “sani” rispetto a quelli “malati” e corrotti dell’occidente: da noi la famiglia è composta da un uomo e da una donna e la pedofilia (sic) non dilaga come nell’Europa occidentale e in America. Mentre lanciava queste e altre simili invettive, le telecamere inquadravano la prima fila della vasta platea dove, uno accanto all’altro, sedevano il patriarca della chiesa moscovita Cirillo e il supefalco Dmitrij Mevdedev, il più esuberante propalatore di paranoiche minacce ai nemici della Russia. Il sacro e il profano del maelstrom ultrareazionario in cui navigano l’ideologia e, si direbbe, la cultura del regime putiniano.
Niente riferimenti a possibili strade diplomatiche nella concione di Putin, altrettanto nulla in quello, più corto e certo meno minaccioso, di Biden. Dopo essersi abbandonato a una retorica un po’ eccessiva sulla assoluta identità di idee e di sentimenti con la battaglia per la democrazia che i soldati ucraini combatterebbero per tutti noi, il presidente americano ha assicurato che “l’occidente non vuole attaccare la Russia”.
L’uomo forte
In prima fila nel parterre, intabarrato per il gelo con il presidente della Repubblica Andrzej Duda e il capo del governo Mateusz Morawiecki applaudiva anche Jarosław Kaczyński , l’uomo forte del regime polacco che poche settimane dopo l’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina cercò di convincere i dirigenti della NATO ad organizzare un corpo di spedizione nelle zone occupate. In realtà ci sono buone ragioni per pensare che nella platea che ascoltava Biden, in presenza a Varsavia e nelle cancellerie degli altri paesi NATO, non tutti siano proprio completamente d’accordo sul fatto che un attacco alla Russia sul proprio territorio oppure un intervento di forze militari occidentali nelle zone occupate dell’Ucraina sia da escludere. Nella assoluta mancanza di chiarezza sugli obiettivi strategici dell’escalation di armi occidentali che vengono gettate nella guerra, c’è, specie in Polonia, nei paesi baltici, probabilmente anche in Gran Bretagna e forse anche altrove, una corrente di pensiero che non esclude affatto che obiettivo finale della guerra possa essere non solo la sconfitta e la scomparsa di Putin, ma anche uno smembramento della Federazione russa. Proposito che, paradossalmente, finirebbe per dare ragione alle paranoie di Putin sulle minacce all’”esistenza stessa” della Russia.
Anche la presenza di questa corrente di pensiero spiega una certa vaga inquietudine con cui era atteso quello che Giorgia Meloni si sarebbe detta con Zelensky. La presidente del Consiglio italiana nel suo viaggio verso Kiev si era fermata proprio a Varsavia per colloqui tutt’altro che solo formali con Morawiecki e Duda. È possibile che un contatto ci sia stato anche con Kaczyński, il quale presiede Diritto e Giustizia, la componente che forma, insieme con Fratelli d’Italia, il grosso del partito europeo dei Conservatori e Riformisti di cui proprio Meloni è il presidente. Inoltre, alla vigilia della sua partenza da Roma si erano diffuse voci sulla possibilità che portasse “in dono” al leader di Kiev gli oggetti del desiderio che lo ossessionano da quando la guerra è cominciata: gli apparecchi occidentali che gli permetterebbero di riprendere il possesso dello spazio aereo sull’Ucraina (e forse non solo…).

Si era parlato di 5 vecchi caccia AMX oppure del placet italiano alla fornitura degli Eurofighter Typhoon, coprodotti dalla fu Aermacchi, che a Zelensky sarebbero stati promessi dal primo ministro britannico Rishi Sunak. Alla domanda di una giornalista ucraina Meloni ha risposto che la fornitura di aerei per quanto riguarda l’Italia “non è una questione sul tavolo”. Per ora, almeno, il nostro paese non dovrebbe rendersi protagonista di un ennesimo scatto in avanti, il più pericoloso, dell’escalation delle forniture di armi all’Ucraina.
La ricostruzione
Al di là del momento d’imbarazzo determinato dalla dura reprimenda di Zelensky a Berlusconi, che alcuni hanno interpretato coinvolgesse in qualche modo pure la capa del governo che non è capace di tenere a bada i suoi alleati, la “piena comunanza” di idee e di sentimenti è stata manifestata da Meloni in una ardita analogia storica sulla nascita delle due nazioni (anche l’Italia, come l’Ucraina, era considerata una mera “espressione geografica” prima della sua unificazione), in una assicurazione sull’impegno che Roma metterà nel favorire il processo di adesione di Kiev all’Unione europea e, più concretamente, nel proposito italiano di forzare i tempi della ricostruzione del paese con un piano di massicci investimenti pubblici e privati e di trasferimenti di know-how da mettere in moto prima ancora che la guerra finisca. Già nel prossimo aprile – ha ipotizzato la presidente del Consiglio si potrebbe tenere a Roma una prima conferenza sulla ricostruzione.
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