Sul confine tra Noi e Loro, i fragorosi silenzi che raccontano la guerra
“La guerra in Europa, che potrebbe farsi totale e travolgerci tutti ma rimane lo stesso guerra degli altri, come tutte le altre in ogni parte del mondo: non sono mai nostre, le carni che morde e la sofferenza di chi fugge”.
Scritto anni fa pensando soprattutto – ma non solo – alla tragedia di Sarajevo assediata da quelli che un tempo erano fratelli, vicini di casa, amici e si sono poi scoperti cecchini a mirare sui passanti e riempire lo stadio e le aiuole di tombe, Il resto è silenzio di Chiara Ingrao torna alle stampe con inquietante attualità pensando alla guerra in Ucraina. Guerra fratricida anche questa, scatenata paradossalmente in nome della fratellanza che Mosca rivendica e impone come un diritto imperiale a unificare sotto una sola bandiera russi e ucraini: morti, città rase al suolo, stupri e violenze per dirsi di nuovo fratelli, l’assurdo eletto a ragion di stato e ipocritamente celato sotto la dicitura ufficiale di “operazione militare speciale”. Bosnia, Ucraina, come Libano o Iraq, o uno qualunque degli altri conflitti che abbiamo visto in questi decenni, o forse in qualunque tempo. Una trama di violenza che si lascia indietro il non detto, quello che sfugge alla cronaca ma non alla vita delle persone.
I “fragorosi silenzi”
“Sentivo l’indicibilità della guerra montarmi dentro. Che le parole della politica – anche quelle del pacifismo, a me così care – mi risuonavano in bocca sempre più vane. Non è questo che sento il bisogno di dire”, scrive Ingrao, militante pacifista, nella premessa al libro, spiegandone le ragioni e anche l’urgenza, di fronte al conflitto a Sarajevo e a tutti quelli che seguiranno.
Al centro del racconto non le parole che ruotano intorno alla guerra, dunque, ma i “fragorosi silenzi” di chi quelle guerre le vive in prima persona, Loro, e di chi le guarda da spettatore, Noi, in un vortice rumoroso di sottofondo che divora tutto, anche l’empatia, anche la solidarietà. Del resto, è storia di adesso, tutti a impacchettare viveri e panni per i profughi ucraini un anno fa, mentre oggi le cancellerie occidentali inviano tank più potenti nella speranza di dare una svolta al conflitto prima che la noia e il caro bollette spostino l’asse dell’opinione pubblica.
Noi, Loro, un confine nel mezzo. Ed invece Loro non sono che l’immagine nello specchio da cui sviamo lo sguardo per non riconoscere noi stessi.
Le guerre sono degli altri, appunto. Non nostre. Per questo è possibile una domanda come quella che apre il libro: “Ma perché te la sei presa in casa?”, punto di partenza di storie diverse, che poi sono un’unica storia. Quella di Sara, interprete in un momento cupo dell’esistenza, e di sua sorella. E poi di Sara e della sua “ospite” Musnida, in fuga da Sarajevo sotto assedio e da una vicenda personale dolorosissima, la morte della sorella Slavenka mentre cercava di recuperare il corpo del fratello sotto il fuoco incrociato di serbi e musulmani: una storia che aveva fatto innamorare la stampa, l’Antigone dei Balcani caduta sotto al tiro dei cecchini per adempiere ad un imperativo morale, anche se quel fratello era ormai nemico.
Tra mito e realtà
La realtà cruda e il mito tessuti insieme, dove noi siamo gli occhi di Sara che accoglie e respinge allo stesso tempo, mettendo una distanza tra sé e il dolore altrui, ma anche gli occhi di sua sorella giornalista, che vorrebbe dettagli succosi da trasformare in show e al tempo stesso chiede: “Ma perché te la sei presa in casa?”. Come dire: perché hai permesso al dolore, alla guerra, di entrarti in casa? Perché non limitarsi a guardare sul divano con il telecomando in mano pronti a cambiare canale?
Un labirinto di emozioni e pensieri ambivalenti intorno a quell’ospite, che per tutti gli altri è solo una profuga e per Sara resta una persona, “una collega”, anche se vive il silenzio e la presenza di lei come un’invasione, prima di ritrovarsi a imbiancare la casa insieme e a rimettere ordine all’esistenza: una ripartenza che arriva come un dono inaspettato da Musnida, una restituzione più generosa dell’ospitalità che trasforma il “mio” in “nostro” anche se in modo fuggevole.
Storie di donne e sorelle, in un continuo rimando, come riflessi in uno specchio in frantumi, schegge di un quadro di insieme di guerre e dolore che non sappiamo/vogliamo leggere nella sua interezza, perché la sua complessità farebbe di “Noi” non più solo degli spettatori. «Ora lo so: ora che i laggiù si avvicinano, sempre di più. So che non ho scelta – ammetterà Sara, la voce narrante -. Devo provare a non fuggirlo più, lo specchio di Tebe. E di Sarajevo. E di Gerusalemme, e di Baghdad. Città divise. Muri che crollano e risorgono, impastati di angoscia: quanti ancora dovremo costruirne, e quanti abbatterne, prima di accorgerci che non è mai nei frantumi, la verità dello specchio?».
Mettere insieme i pezzi è il lavoro interiore che compie Musnida. E lo fa con le parole, scavando nel Mito e nelle ragioni della sorella uccisa. Parole che servono a ricucire, a comunicare, a gettare ponti interiori per comprendere la propria storia personale dentro una storia più grande. Perché dai “fragorosi silenzi” emerga una riposta all’indicibilità della guerra. Un’alternativa. Come Cadmo, che usò un canto per sconfiggere il drago. “Solo un canto. Solo parole: proprio come Edipo, per fermare la Sfinge”. Parole diverse da quelle che sentiamo pronunciare. Parole diverse da “guerra”.
Chiara Ingrao, “Il resto è silenzio”,
Con uno scritto di Raffaella Chiodo Karpinsky
Baldini+Castoldi editore
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