Strage di Bologna:
i terroristi al soldo
dei servizi deviati
Possiamo paragonarlo a una lunga arrampicata. Mani e piedi poggiano su tacche e appigli quasi invisibili a occhio nudo; si sale un tiro di corda dopo l’altro, sfidando esposizione e tratti di roccia franosa. Ogni tanto, la parete inganna, quella che sembrava una via verso la vetta è un binario morto: bisogna tornare indietro e cercare strade alternative, in un mondo completamente verticale. Qualcosa di molto simile è stato, per quarant’anni, il processo per la strage del 2 agosto. Depistaggi e trabocchetti investigativi pericolosi come il ghiaccio in quota; campagne di delegittimazione contro giudici e familiari delle vittime, fenomeni simili alla pioggia di sassi che spesso costringe gli alpinisti a tentare di assimilarsi alla parete per evitare di essere travolti. Indagini perennemente in salita su muri lastricati di silenzio. Poi però, già nella prima metà degli anni Ottanta, il passo si fa via via più sicuro, gli appigli sempre più assomigliano a gradini, i gradini diventano cenge. Investigatori e magistratura inquirente scovano indizi, che si trasformano lentamente in prove.
L’ultima tappa
L’ultima tappa dell’ascensione giudiziaria è ora all’esame del gip, che esamina, tra le altre, la posizione, di Paolo Bellini, antiquario e aviatore, in contatto con un mafioso presente a Capaci il giorno in cui Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo furono assassinati insieme con gli uomini della scorta. L’ubiquo Bellini, neofascista di Avanguardia nazionale, era alla stazione di Bologna il giorno della strage. In questo senso depone il fotogramma di una pellicola girata subito dopo l’esplosione. Bellini è stato riconosciuto senza sforzo alcuno dall’ex moglie.

A metà degli anni Novanta, nonostante depistaggi e tossine grandinati sulla magistratura, la Cassazione fissò un primo punto fermo. La bomba, circa venti chili di esplosivo piazzati nella sala d’aspetto di seconda classe, l’avevano messa i fascisti dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari): Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Per proteggerli dalle indagini si erano mossi i Servizi segreti, ai più alti livelli: il generale Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte del Sismi, l’allora Servizio segreto militare, vennero condannati per aver piazzato su un treno esplosivo e documenti falsi, nel tentativo di indirizzare i sospetti all’estero. Sabbia gettata nella macchina investigativa. Insieme a loro, il capo della P2 Licio Gelli e “l’uomo d’affari” Francesco Pazienza, padrone di un pezzo del Sismi anche grazie al business messo in piedi insieme a Giuseppe Santovito, direttore del Servizio segreto, morto prima di essere sottoposto a giudizio. Musumeci e Santovito appartenevano alla P2; Belmonte era inserito nel cosiddetto Capitolo nazionale coperto della famiglia massonica di Palazzo Giustiniani; Pazienza ha ammesso di essere stato affiliato alla stessa famiglia con una formula ultrariservata (“all’orecchio del Gran Maestro”), negando di essere entrato nella P2. E’ noto però che i cosiddetti “fratelli all’orecchio” o “alla memoria” – conosciuti solo dal massimo esponente della famiglia di appartenenza – furono a lungo sotto il diretto controllo di Licio Gelli. Negli anni 2000 arrivarono le condanne di altri due neofascisti, complici dell’attentato: Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca della strage, e Gilberto Cavallini, ergastolo in primo grado nel gennaio 2020.
La novità del 2020
Il legame tra neofascismo e apparati deviati era già leggibile nei fatti, ovvero nei numerosi depistaggi e boicottaggi investigativi messi in atto. Era emerso con chiarezza anche in altri processi per strage e nei silenzi degli apparati dello Stato registrati durante le inchieste sui tentativi golpisti. Numerosi collaboratori di giustizia avevano descritto con precisione i canali attraverso cui passava questo rapporto. Spiegò ad esempio Paolo Aleandri, esponente di Costruiamo l’azione (Cla), una emanazione di Ordine nuovo, che nella fase di preparazione del cosiddetto golpe Borghese, nel 1970, quando fu necessario stringere rapporti con ufficiali dei carabinieri, “l’elemento che consentiva di porsi in rapporti con questi ufficiali era proprio Licio Gelli”, cioè la P2. Le compromissioni coi Servizi non riguardavano solo la vecchia guardia neofascista, come dimostravano peraltro i nomi in codice di alti ufficiali, trovati in casa del leader ordinovista Paolo
Signorelli, ma anche gruppi che si definivano “spontaneisti” proprio per marcare distanze politiche e generazionali con le zone d’ombra del passato. In questo caso si era però fermi a testimonianze basate su deduzioni, notizie o voci apprese da terzi, osservazioni indirette. Era noto e comprovato che chi metteva le bombe godesse di protezioni istituzionali, ma era difficile dimostrare che terroristi e barbe finte fossero gli anelli di una complicatissima catena – che sarebbe improprio definire “di comando” – ma comunque collegava più livelli, convenzionalmente
chiamati “esecutori” e “mandanti”.
La novità del 2020 è questa: quelli che, contro ogni evidenza, si autorappresentavano come angeli ribelli e violenti, i cosiddetti spontaneisti, oggi somigliano sempre più a partite Iva cresciute all’ombra di parti dello stesso Stato che pretendevano di combattere.
Seguire il denaro
L’idea di seguire il denaro, come suggeriva Giovanni Falcone, è stata dei consulenti dell’Associazione tra i familiari delle vittime, che si sono concentrati in particolare sugli atti di un crack miliardario, quello del Banco Ambrosiano (d’ora in poi, Ba). Un terremoto che all’inizio degli anni Ottanta sconvolse la finanza e la politica italiane, scatenando le prime ire contro i giudici del leader socialista Bettino Craxi. Due documenti sembrano molto importanti per decifrare i retroscena della strage, entrambi furono trovati nella disponibilità di Licio Gelli, condannato insieme
con Francesco Pazienza per l’affondamento dell’Istituto bancario di Roberto Calvi. Il primo trovato a Castiglion Fibocchi durante una perquisizione disposta dai magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Nell’appunto scritto a mano si parla di 5 milioni di dollari transitati per le mani di Marco Ceruti – affarista fiorentino molto vicino a Gelli e suo prestanome- tra il 20 e il 30 luglio del 1980.
Anticipo di un milione e mezzo, tredici giorni prima della strage; saldo di tre milioni e mezzo, tre giorni prima dell’attentato. Per il momento è sufficiente aggiungere che in quel periodo sia Gelli che Ceruti erano a Roma e che per le mani del terrorista nero Gilberto Cavallini, titolare di due conti in Svizzera, transitarono 57 mila dollari americani e 3 milioni e mezzo di franchi francesi.
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