2 agosto, con la condanna
di Cavallini il filo che lega
neofascisti e mafiosi

Una sentenza-ponte, perché conferma quanto accertato in passato e corrobora fronti d’indagine presenti futuri. L’ergastolo a Gilberto Cavallini per la strage di Bologna – 2 agosto 1980, 85 morti e 200 feriti – è l’ennesima boa in una navigazione che sulle sue rotte ha spesso incontrato nebbie e mappe falsificate, bugie e depistaggi, ma non si è mai interrotta per la civile e intelligente cocciutaggine di giudici e familiari delle vittime. Gilberto Cavallini, che oggi ha 67 anni, è il quarto neofascista condannato come autore materiale del massacro di quarant’anni fa. Lo hanno preceduto Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, oggi in libertà condizionata, e Luigi Ciavardini, giudicato in separato processo perché all’epoca della strage non aveva ancora compiuto 18 anni.

strage di bolognaA Bologna però non sono stati giudicati solo gli esecutori del più grave attentato mai perpetrato in Italia in tempo di pace. Nel ’95 è diventata definitiva la sentenza contro gli uomini dei servizi segreti che tentarono di fare spiaggiare l’inchiesta orientandola verso un’inesistente pista estera: due ufficiali del Sismi (l’allora servizio segreto militare), il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte, affiliato il primo alla P2 e il secondo al cosiddetto Capitolo nazionale coperto della massoneria di Palazzo Giustiniani. Il loro burattinaio, hanno accertato i giudici, fu il capo della P2 Licio Gelli con l’appoggio di Francesco Pazienza, strettissimo collaboratore di Giuseppe Santovito, all’epoca direttore del Sismi, morto prima di arrivare in giudizio.

Mai un processo era giunto tanto in alto, ma nel fascicolo intestato a Gilberto Cavallini ci sono nomi e circostanze che possono portare a quote ancora più rarefatte, dove si incontravano affari sporchi e killer, un “mondo di mezzo” in cui si intravvede l’ombra di Cosa nostra, quasi un perfetto compendio degli intrecci che nell’arco di due decenni hanno fuso i destini della parte emergente dell’Italia illegale con quelli di tanti ammazzasette, politicizzati o con la coppola. Cavallini, com’è suo diritto, nega tutto e i suoi avvocati hanno già annunciato appello. L’ex killer nero dice di essersi pentito per gli omicidi che ha sulla coscienza ma di non poterlo fare per quelli che non ha commesso: tra questi, naturalmente, c’è la strage. E’ la stessa linea sostenuta in questi anni da Fioravanti, Mambro e Ciavardini, e da un ampio e politicamente trasversale fronte innocentista, ma contraddetta dalle conclusioni di un numero sempre più alto di collegi giudicanti.

Le carte che hanno portato a riconoscere in Cavallini l’uomo che fornì supporto logistico (alloggi e mezzi di trasporto) agli altri autori della strage sono le stesse che rivelano nuovi retroscena dell’attentato e spingono i familiari delle vittime a chiedere di indagare sui mandanti della strage. Per capirle, bisogna ripercorrere la carriera di “Gigi” Cavallini, detto anche il “negro”, giovane milanese che esordisce negli anni Settanta, organizzando le tifoserie ultrà sugli spalti di San Siro, ma passa presto a imprese più impegnative. Prima spara a un benzinario che gli rifiuta un rifornimento gratis, poi uccide a coltellate Gaetano Amoroso, uno studente di sinistra. Siamo nel 1976, attendono Cavallini una condanna pesante e un’evasione propiziata da una distrazione dei carabinieri che lo portano da un carcere all’altro. Da quel momento, l’evoluzione criminale del giovane neofascista avviene all’ombra di Ordine nuovo, sezione veneta, la stessa messa a fuoco dalle indagini sulla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969, 17 morti e 88 feriti). Tra i tutori dell’apprendista Cavallini c’è Massimiliano Fachini, leader legato a Franco Freda e Giovanni Ventura, che oggi, anche al netto di un’assoluzione definitiva, sappiamo essere responsabili della “madre di tutte le stragi”avvenuta cinquant’anni fa. Il 23 giugno dell’80, entrato nell’orbita dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari guidati da Fioravanti e Mambro, Cavallini uccide con un colpo alla nuca Mario Amato, magistrato romano lasciato solo a indagare sull’eversione di destra.

bologna non dimenticaFin qui il curriculum sembra quello di un classico terrorista, in corsa verso il nulla sulla pelle di vittime innocenti. C’è un altro omicidio che permette di metterne meglio a fuoco la personalità. E’ quello del brigadiere dei carabinieri Ezio Lucarelli, che si imbatte in Cavallini il 26 novembre dell’80, pochi mesi dopo la strage. E’ una mattina piovosa e Lucarelli, col maresciallo Giuseppe Esposito, come lui specializzato nel contrasto dei sequestri di persona, sta controllando la carrozzeria milanese Luki, in via Ofanto, zona Lambrate. Un’operazione che fila liscia fino a quando nel cortile dell’officina non entra un’ Audi metallizzata, con a bordo due uomini che aprono il fuoco subito dopo aver consegnato i documenti ai carabinieri. Uno è Gilberto Cavallini, all’epoca ventisettenne, l’altro è Stefano Soderini, ancora più giovane, che inizierà a collaborare con la giustizia nell’83. Lucarelli muore dopo il trasporto all’ospedale, il maresciallo Esposito se la cava con un proiettile in una gamba. La carrozzeria Luki, si scoprirà presto, è una delle basi milanesi dei Nar.

Le prime sorprese arrivano quasi vent’anni dopo quella mattinata uggiosa e violenta. Da una direzione insospettabile. E’ il 1998 e Michele Ristuccia, alto funzionario della Fiera Campionaria di Milano, sta rendendo le prime testimonianze sull’ultima scoperta fatta dal professor Aldo Giannuli, che con l’aiuto di un bravissimo poliziotto in pensione, Michele Cacioppo, svolge una consulenza per la magistratura bresciana impegnata nelle indagini sulla strage di piazza della Loggia (28 maggio 1974, 8 morti, 102 feriti). Da un deposito sulla via Appia, a Roma, sono saltati fuori carte che documentano l’esistenza di un segmento – ultraclandestino, fino a quel momento – dei servizi segreti: il cosiddetto Anello o Noto Servizio. Ristuccia è stato un suo componente ed è il primo ad accettare di parlarne con un colonnello dei carabinieri.La sua collaborazione è però accompagnata dal furto dell’auto e da una certo numero di telefonate di minaccia, ovviamente anonime. Oggi sappiamo che le telefonate che tentavano di dissuadere Ristuccia dal collaborare con gli inquirenti provenivano da un’utenza intestata a Maria Giovanna Simone, sorella di Cosimo Simone, titolare della carrozzeria Luki, quella in cui Cavallini e Soderini avevano assassinato il brigadiere Lucarelli. Che c’entrava quella carrozzeria con l’Anello?

Sappiamo anche che nell’agenda di Cavallini c’era il numero di telefono di una struttura riservata della Sip, sita a Milano in via Mantegna e frequentata da Adalberto Titta, capo del Noto Servizio, coinvolto insieme al generale Musumeci nelle oscure trattative col boss camorrista Raffaele Cutolo che precedettero la liberazione di Ciro Cirillo, rapito nell’81 dalle Brigate rosse. A Cavallini, durante una perquisizione, fu trovata una mezza banconota da mille lire: quello delle mezze banconote era un linguaggio cifrato per accedere agli arsenali di armi ed esplosivi di Gladio, l’organizzazione scoperta nel 1990. Quindi Cavallini, appartenente ai Nar, un gruppo che si definiva “spontaneista” per distinguersi dalle vecchie organizzazioni neofasciste, troppo compromesse con gli apparati dello Stato, aveva a quanto pare accesso almeno indiretto a strutture di intelligence.

Altro particolare. Con la macchina da scrivere della carrozzeria di via Ofanto era stato battuto un falso certificato di conformità intestato a Giovanni Bottacin, nome di copertura di Cavallini, trovato su una Bmw di cui il terrorista nero aveva la disponibilità. L’auto era finita nell’autoparco di un mafioso palermitano, Francesco Buffa, scomparso nell’88.Da qui si dipana un vero e proprio reticolo di coincidenze. Francesco Buffa e il suo sodale, Salvatore Davì, facevano parte del mandamento mafioso di Resuttana, che controllava anche San Lorenzo Pallavicino, la zona palermitana in cui si trova tra l’altro la villa dell’Addaura, dove nell’89 si consumò il primo attentato con esplosivo ai danni di Giovanni Falcone.

Buffa e Davì erano amici di Francesco “Ciccio” Mangiameli, leader neofascista che un pentito come Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, colloca al centro delle trame intessute per uccidere, il 6 giugno dell’80, Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Sicilia che si batteva contro lo strapotere mafioso e che aveva aperto, come il suo maestro, Aldo Moro, assassinato due anni prima, una nuova stagione di rapporti con il Pci. Mangiameli fu anche l’anfitrione di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, nei giorni immediatamente precedenti la strage di Bologna. E furono loroad assassinarlo quando diventò chiarò che stava diventando un testimone potenzialmente molto pericoloso.

Cosa sapeva Mangiameli? Cercò di scoprirlo anche Giovanni Falcone, che indagò sugli omicidi politici palermitani (quello di Michele Reina, segretario provinciale della Dc palermitana, dello stesso Mattarella e del parlamentare del Pci Pio La Torre), incriminando, oltre alla cupola mafiosa, i presunti esecutori materiali Gilberto Cavallini e Valerio Fioravanti. Contro di loro c’erano elementi importanti, ma che non furono considerati sufficienti. Entrambi sono stati assolti con sentenza definitiva.Quelle indagini però non sono finite e al centro c’è ancora una volta l’estrema destra. Poche settimane fa l’Espresso ha rivelato che la pistola calibro 38 con cui a Roma fu ucciso il giudice Mario Amato potrebbe essere la stessa con cui, pochi mesi prima fu assassinato Mattarella. Si tratta di inchieste apparentemente distanti tra loro.Il primo omicidio fu consumato in nome e per conto del terrorismo di matrice neofascista, del secondo si cercano ancora gli esecutori materiali, ma sicuramente l’ordine partì dalla cosidetta“cupola”, la Commissione che riuniva i vertici di Cosa nostra.

Subito dopo l’attentato dell’Addaura, Falcone rilasciò a Saverio Lodato, giornalista dell’Unitàe decano dei cronisti giudiziari palermitani, un’importante intervista in cui parlava, a proposito del tentativo di ucciderlo, di “menti raffinatissime” e di oscure convergenze di interessi. Tra mille veleni e colpi bassi, il magistrato che aveva istruito il primo maxiprocesso a Cosa nostra, tentava di chiudere anche l’indagine sui delitti politici. Voleva indagare (come chiedevano i legali rappresentanti della famiglia La Torre) anche su Gladio, ma gli fu impedito. Era convinto che dietro quei tre omicidi non ci fosse solo Cosa nostra e che l’indagine fosse incompleta, ma quando ormai stava per lasciare Palermo e andare a dirige gli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, firmò insieme ai colleghi la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici mafiosi e per due killer, anomali in quel contesto, come Fioravanti e Cavallini. Lo fece per disciplina e spirito di servizio, hanno raccontato le persone a lui più vicine. Dopo la sentenza di Bologna, forse anche le indagini di Falcone, 28 anni dopo la sua morte nella strage di Capaci, hanno fatto un piccolo passo avanti.