Strage di Bologna,
è ora di aprire
le stanze dei segreti
Un’occasione di cambiamento per il governo cosiddetto del cambiamento: modificare le norme che permettono a chi a suo tempo ha nascosto documenti sulle stragi di scegliere quelli da declassificare e quelli da lasciare nel cassetto; renderli pubblici, disponibili per familiari delle vittime, giudici, giornalisti e ricercatori che da decenni vagano tra gli archivi cercando brandelli di verità in più. Ci provò, quando era premier, Matteo Renzi, ma la sua azione almeno in linea teorica meritoria, si fermò per così dire in superficie e dagli archivi non uscì nulla di rilevante. Oggi il Pd chiede al governo la convocazione del comitato consultivo per il monitoraggio sulla desecretazione degli atti, in aula il sottosegretario Riccardo Fraccaro (M5s) risponde che verrà fatto.
Diciamo che l’operazione trasparenza su lustri di tentativi eversivi è ancora ferma al “carissimo amico” (e che sull’argomento il famoso “contratto” sottoscritto dalla maggioranza gialloverde non spende una sillaba). In più c’è un precedente che, pur non riguardando le stragi, non sembra rassicurare sulle intenzioni di una componente rilevante dell’esecutivo di cercare la verità. Ne è stato protagonista qualche mese fa il ministro degli Interni Matteo Salvini, che ha definito (salvo correggersi successivamente) il caso di Giulio Regeni, il ricercatore torturato e assassinato in Egitto, un “affare di famiglia”, di fatto annunciando il sostanziale disinteresse del governo alla vicenda e sostenendo la priorità di intrattenere buoni rapporti con il presidente alleato al-Sisi, accusato da associazioni come Amnesty e Human rights watch di gravi violazioni dei diritti umani, ma importantissimo per il controllo dei flussi migratori.
La situazione è per molti aspetti paradossale. Degli archivi dei Carabinieri, ad esempio, non si sa nulla. Perché, come ha spiegato Aldo Giannuli, sociologo da trent’anni impegnato sul fronte di queste ricerche, il Comando generale rimanda agli archivi dei Comandi di Regione e questi alle Compagnie. Da qui la palla rimbalza alle stazioni dei Carabinieri, che però, essendo piccoli presidi territoriali, hanno limitatissime possibilità di immagazzinare carte. In definitiva, dove siano finite rimane un giallo e chi l’ha creato, leggi i vertici dell’Arma, non sembra in grado di risolverlo.
Se poi passiamo dai cassetti delle amministrazioni nazionali a quelli degli enti sovranazionali, la nebbia si fa totale. Gli archivi della Nato sono inaccessibili non solo ai comuni cittadini ma anche ai giudici. Così mancano all’appello – lo ha spiegato al Fatto Quotidiano l’ex giudice istruttore Leonardo Grassi – decine di fascicoli personali che potrebbero essere conservati nelle Questure d’Italia o negli archivi dei servizi segreti e dell’Esercito. Tra gli altri, quelli riguardanti Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, condannati con sentenza definitiva per la strage del 2 agosto 1980 (85 morti e 200 feriti), di cui ricorre il 38° anniversario.
Stiamo parlando di carte a volte vitali per accertare la verità e magari accorciare la durata di processi che come quello per la strage di Bologna, soprattutto grazie all’impulso fondamentale dei parenti delle vittime, continuano a farsi largo tra depistaggi, muri di omertà, ricostruzioni fantasiose degli stessi protagonisti. Di queste ultime diamo un piccolo assaggio, solo per capire di cosa stiamo parlando.
E’ il 28 giugno 2018, poche settimane fa. Valerio Fioravanti, condannato a 8 ergastoli per aver ucciso 93 persone, tra cui le 85 morte nell’esplosione del 2 agosto ’80 alla stazione di Bologna, compare come testimone nel processo a Gilberto Cavallini, già suo complice nei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, gruppo neofascista nato da Terza posizione. L’assassino del giudice Mario Amato, eliminato il 23 giugno del 1980, due mesi prima della strage, proprio mentre da solo indagava sui Nar e sui collegamenti emersi tra i gruppi eversivi di estrema destra e la loggia segreta P2, è oggi imputato di strage dopo aver già subito una condanna a 12 anni per banda armata finalizzata al compimento dell’attentato di Bologna. Fioravanti è arrivato da solo in Tribunale: dal 2009 è in libertà condizionata, in linea teorica conseguenza di un avvenuto ravvedimento, dopo aver scontato 26 anni di carcere per i delitti commessi. Pronuncia molti, forse troppi “non ricordo” poi improvvisamente si addentra in una strana dissertazione sulla simmetria.
“Abbiamo sempre cercato di rispettare una simmetria nelle nostre azioni, è una questione a cui tenevamo molto. Amato era una persona che noi sapevamo essere armata di una pistola 38 special e l’abbiamo fatto affrontare da un’altra persona armata di 38 special. Uno a uno.” Raccontato così sembra un duello, manca solo nome e cognome dei padrini. Ma si tratta solo dell’immagine trasfigurata di un’esecuzione o, se si preferisce, di un omicidio a sangue freddo. Quel giorno Amato è senza auto di scorta (i Nar verosimilmente sanno anche questo), sta aspettando l’autobus alla fermata vicino a casa. Cavallini lo raggiunge alle spalle e gli spara alla nuca. Altro che simmetria. Il dibattimento si infiamma. Un avvocato di parte civile, Andrea Speranzoni, ricorda al teste le modalità dell’agguato: “La vostra simmetria non ha funzionato molto bene”, osserva. Fioravanti, indispettito: “Ha funzionato benissimo, le Brigate rosse lo facevano in dieci, noi in uno”. Speranzoni: “Appunto, le Br erano un’organizzazione criminale come la vostra”. Il testimone si inalbera: “Ma sì, non mi faccia la morale”.
Sin qui di ravvedimento non se ne vede molto e ancor meno si vede una disponibilità a chiarire e rielaborare il proprio passato, anche senza collaborare con la magistratura. Naturalmente il punto del processo non è questo. L’inchiesta, avocata dalla Procura generale dopo la richiesta d’archiviazione avanzata dai pm titolari, punta a chiarire se, oltre ad avere responsabilità specifiche nella strage, Cavallini, una carriera criminale nata all’ombra di Ordine Nuovo, l’ammiraglia della flotta eversiva, avesse collegamenti con un livello superiore, in particolare coi servizi segreti. E un piccolo grande tassello, stando a un’inchiesta dell’Espresso, è già stato acquisito. Nel 1983, tra le cose sequestrate all’uomo dei Nar c’era una mezza banconota da mille lire, numero di serie chiuso dal numero 63. L’altra metà di quella banconota è stata trovata nei documenti della Gladio, l’organizzazione clandestina stay behind scoperta nel ’90 dal giudice Felice Casson. Si trattava di una sorta di lasciapassare per accedere ai depositi d’armi segreti, i cosiddetti Nasco. Dunque Cavallini, il più stretto collaboratore di Fioravanti, Mambro e Ciavardini, era legato, stando a queste prove, a una componente clandestina dei nostri servizi segreti.
Ci sono voluti 38 anni per questa acquisizione e corre l’obbligo di chiedersi perché altri settori dell’amministrazione, come si è visto sostanzialmente disimpegnati se su questo fronte, non abbiano dato un contributo diverso a una ricerca che comunque, per quanto lentamente, va avanti segnando risultanti significativi e modificando decisamente il profilo di un’eversione che ormai appare sempre più strettamente legata a fenomeni criminali di natura diversa e di forte impronta mafiosa. Basta considerare la vicenda di Fioravanti e Cavallini, com’è noto coinvolti e poi assolti con sentenza definitiva, anche nel processo per l’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia e strettissimo collaboratore di Aldo Moro, probabilmente destinato, se le pallottole non lo avessero fermato, a ruoli nazionali di primo piano nella Democrazia cristiana.
Quelli di Moro e Mattarella sono omicidi che hanno cambiato il corso della politica italiana. Del secondo si conoscono i mandanti, la cupola mafiosa costituita intorno a Salvatore Riina, ma non gli esecutori materiali. Fioravanti fu riconosciuto in foto dalla vedova Mattarella, testimone oculare del delitto, ma un principio fondamentale del nostro ordinamento dice che lui e Cavallini non possono essere processati due volte per lo stesso reato. Tuttavia acquisizioni recenti, tra cui una targa rinvenuta a Torino, in un covo della formazione neofascista Terza posizione, riportano la palla nel campo dell’estrema destra, potenzialmente ridisegnando un pezzo di storia italiana.
Del resto è noto che Giovanni Falcone, titolare dell’Inchiesta sui delitti Reina, Mattarella e La Torre voleva indagare anche sul ruolo dei servizi segreti e in particolare su Gladio ma non gli fu consentito. Come rivela un appunto del suo diario informatico alle date 18 e 19 dicembre 1990: “Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato (al procuratore capo Pietro Giammanco, noto per i suoi scontri con il magistrato ucciso a Capaci ndr) che vi è l’istanza del processo della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito quindi di chiedere al G.I. (giudice istruttore, ndr) di compiere noi le indagini in questione… Invece sia egli che Pignatone (Giuseppe Pignatone, oggi capo della procura di Roma ndr) insistono di rinviare tutto alla requisitoria finale…”. La conseguenza, scrive Falcone, è che il suo capo non ha più chiamato l’omologo di Roma, Ugo Giudiceandrea, ed è venuta meno “la possibilità di incontrare i colleghi che si occupano di Gladio”. Chissà cosa avrebbe detto Falcone se avesse potuto vedere quella banconota che oggi lega Cavallini a una struttura occulta. E le altre carte che, se ancora esistono, rimangono in cassetti di fatto sigillati da un segreto di stato mai pronunciato.
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