Storie del Manifesto: Pintor a Cagliari
tra i ribelli della sezione Lenin

Quest’anno cadono due anniversari capaci di suscitare memorie particolari almeno nei più anziani che vogliono tentare di capire il mondo di oggi. Questi anniversari riguardano il centenario della fondazione del Partito comunista italiano e il mezzo secolo di vita che oggi separa il quotidiano “il Manifesto” dall’anno della sua fondazione. Proprio a Cagliari la vicenda del Manifesto ha avuto uno dei passaggi più importanti e meno noti, in una importante sezione del Pci. Con i compagni che si mandavano fraternamente a quel paese.La storia che adesso raccontiamo si riferisce, appunto, a quei tempi e a quei protagonisti.

Tutto ebbe inizio con la decisione dei dirigenti locali del PCI di occuparsi di un problema che, secondo loro, rappresentava una anomalia. Il partito era molto forte nella zona mineraria, nel retroterra e nei comuni del Campidano dove si raccoglievano voti con percentuali da Emilia rossa. Ma a Cagliari città la musica era diversa perché la struttura burocratica dell’amministrazione pubblica e l’associazionismo cattolico funzionavano da diga anticomunista e i poveri compagni venivano umiliati con percentuali da Veneto bianco. Poiché i testi sacri insegnavano che il progresso culturale e politico passa obbligatoriamente per le città quei comunisti volenterosi decisero di intervenire, incoraggiati anche dai fermenti che sembravano emergere tra i giovani, segnatamente nel mondo universitario e persino tra i rampolli della borghesia. Fu quindi studiato un piano d’attacco e nel quartiere scelto come base per le operazioni si chiuse la sezione esistente, si diede il benservito ai compagni che la dirigevano da tempo, si trasferirono le masserizie in un locale più spazioso e più centrale e si mise la bandiera e l’elenco degli iscritti nelle mani di un nuovo gruppo dirigente, giovane di età e di milizia politica. Secondo le speranze di chi stava in capo all’operazione tutto questo doveva servire a portar gente nuova nel partito, coprire i vuoti che si lamentavano nell’area urbana e ad esprimere candidature acchiappa – voti per le elezioni prossime future.

Nel loro ottimismo i compagni dirigenti non avevano tenuto conto che in Italia stavano accadendo fatti epocali. Era arrivato il miracolo economico e alla lira era stato assegnato l’oscar delle monete; l’esplodere dei servizi aveva moltiplicato l’entità numerica del ceto medio e scombinato la composizione dei gruppi sociali, una voglia di cambiamento aveva investito tutti quanti e quello che proveniva dal passato era sottoposto a critiche feroci. La buriana non poteva ignorare il PCI tanto che Togliatti, alla Conferenza d’organizzazione che si tenne a Napoli proprio in quel periodo, si sentì in dovere di chiedere a Pietro Ingrao, punto di riferimento di tanto nervosismo e di tante impazienze, di precisare cosa proponeva di concreto.

A Cagliari ad interpretare il nuovo clima sociale e politico provvide la sezione appena inaugurata che i giovani chiamati a dirigerla decisero di intestarla al compagno Lenin, così, tanto per precisare che a loro i tempi lunghi della via italiana al socialismo non garbavano più di tanto. La contestazione nei confronti del partito e del suo gruppo dirigente si palesò quasi subito e si concentrò particolarmente sul tema del centralismo democratico, cioè sull’esecrata norma statutaria che vietava all’interno del partito la presenza di correnti organizzate. I compagni della Lenin avevano individuato in quella formula lo strumento utilizzato dai funzionari di partito per conservare arbitrariamente il potere e soffocare la creatività rivoluzionaria della base. Dicevano, quei compagni, che anche nel PCI il clero si era impadronito della chiesa e bisognava lottare per rendere ai fedeli il maltolto. Gli accusati, cioè i burocrati della federazione, ascoltavano quelle reprimende con molta pazienza perché sapevano che la partita che si stava giocando era molto importante, che in quella sezione si sperimentava il tentativo di far convivere in un unico progetto politico il vecchio partito dei braccianti, degli edili e dei minatori con l’idea della politica che avevano in testa i figli del miracolo economico, le nuove generazioni cittadine che non avevano sofferto la guerra e il dopoguerra. Del resto, pensavano, se i braccianti e gli edili sono arrivati a capire che in Italia il problema del potere non si risolve con una spallata ma avvicinandosi all’obiettivo ad un metro per volta, perché questo concetto non dovrebbero capirlo anche i dirigenti di questa sezione, persone che hanno studiato e che leggono tanti giornali tutti i giorni?

Questo ragionamento, di puro buonsenso, stentava a far breccia nella testa dei dirigenti della Lenin ma era invece ben presente tra gli avversari del PCI, che sapevano che quel partito non poteva andare al governo perché gli americani erano capaci di ammazzare chiunque lo proponesse, ma sapevano anche che gli Yankee e la Nato avrebbero chiuso un occhio se uomini indicati dal PCI fossero andati ad amministrare il Comune di Cagliari o il Consorzio per il Porto Canale. Per non correre pericoli di questo genere la DC e i suoi alleati si insinuarono nello scontro, appoggiati da tutti i giornali del regime e i ragazzi della Lenin diventarono in breve tempo un caso nazionale, eroi del libero pensiero, vittime dello stalinismo presente nel PCI.

L’intrusione era tanto smaccata che i più avvertiti tra quei giovani cominciavano a prendere le distanze ma a complicare ogni cosa avvenne un fatto nuovo: L’arrivo a Cagliari di un “guru” di grande carisma: Luigi Pintor, nientemeno. Luigi aveva tutti i numeri per far colpo su quei compagni di fresca data che provenivano dalle classi medie e medio – alte della nostra città. Con le sue critiche alla direzione del partito, Luigi rispondeva anche alle impazienze e al malessere di quanti non sopportavano più il regime democristiano ma non avevano nessuna intenzione di passare la vita in un partito d’opposizione. Lui era uomo di nobili natali, ai suoi parenti erano intestate alcune strade cittadine e le vecchie zie, che lo chiamavano affettuosamente Gigi d’oro, vivevano ancora nel quartiere di Castello. Luigi, inoltre, era simpatico, spregiudicato e tanto alla mano. Vestiva un casual elegante, era un grande affabulatore ed un impareggiabile commensale: cenare con lui rappresentava un privilegio e anche uno spasso. Andava in giro su una millecento scassata, raccontava di essere diventato amico delle più vecchie battone cagliaritane esercitando su un gruppo di fedelissimi il suo fascino di seduttore: raccontava del mondo romano, proponeva ogni tipo di aneddoti su Botteghe Oscure e spiegava le sue idee sulle grandi questioni italiane e internazionali.

Era stato mandato in Sardegna dopo un travagliatissimo periodo all’Unità dove, da condirettore, poi fu chiamato a far parte della cerchia dei più ristretti collaboratori del segretario Luigi Longo e infine fu spedito nella terra dei suoi avi dove, in attesa delle elezioni, fu cooptato nella segreteria regionale. Da lì, più d’una volta, si esibì nell’acrobazia di scrivere in dieci minuti l’editoriale per “Rinascita Sarda”. Lo stile di quegli editoriali era naturalmente elegante e corrosivo perché Luigi è stato veramente un grande giornalista, tra i più grandi che l’Italia abbia mai avuto nell’arte difficilissima di scuotere il lettore con una cartella di trenta righe. Anche come organizzatore del lavoro giornalistico è stato eccezionale e il successo del “Manifesto” rappresenta una conferma del suo talento professionale. Assai più discutibile invece è la sua esperienza di dirigente politico…

Con la presenza di Pintor a Cagliari la vicenda della Lenin si trasformò automaticamente nella vicenda del “Manifesto”; tutta la stampa nazionale si interessò al caso e la nostra città fu visitata da un numero inverosimile di inviati speciali. Nei locali della sezione la discussione si avvitò su se stessa e tutti quanti si convinsero che il tram era giunto al capolinea. La conta che si organizzò qualche tempo dopo certificò che i ribelli si erano ridotti a una netta minoranza ma nessuno si sentì vincitore. L’esperimento tentato era stato interessante ma aveva fallito i suoi obiettivi.