Stoltenberg: “Legittimi i timori dei turchi” e parte la trattativa sulla pelle dei curdi

“I timori della Turchia per il terrorismo sono legittimi e dobbiamo prenderli sul serio”. Così parlò Jens Stoltenberg qualche ora prima che la premier svedese Magdalena Andersson annunciasse il proposito di cambiare la legge anti-terrorismo “alla luce della nostra richiesta di adesione alla NATO”. Formule indirette e spiacevolmente ipocrite per far sapere al mondo che un’intesa per superare l’impasse determinata dal veto di Ankara all’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia potrebbe essere all’orizzonte. Come? Il primo passo da compiere in nome della “legittimità” dei timori turchi proclamata dal segretario generale della NATO e delle modifiche di legge allo studio a Stoccolma sarebbe la consegna alle galere di Recep Tayyip Erdoğan di trentatre curdi che hanno chiesto e ottenuto asilo politico in Svezia.

Jens Stoltenberg e Magdalena Andersson

Le due dichiarazioni sono state riportate dai media italiani senza particolare enfasi. Anzi, accompagnate dalle consuete considerazioni sulle abitudini levantine al mercanteggiamento dei turchi in generale e di quel turco in particolare, sono state lette come un positivo sviluppo della vertenza. In fondo, la sorte di trentatre sconosciuti agitatori di una causa lontana, persa laggiù, in fondo al Medio Oriente, sono un prezzo più che abbordabile da pagare al padre padrone della Turchia che richiama in vita i fasti ottomani. Un tempo i prigionieri fatti schiavi dal Gran Sultano venivano riscattati a suon di quattrini, perché non si dovrebbe, secoli dopo, fare il contrario?

Opportunismo e cinismo

Si tratta, in fondo, di realpolitik, abbiamo letto sui giornali, e la morale nella Realpolitik (che si scrive con l’iniziale maiuscola come fanno i tedeschi che l’hanno inventata come una cosa bella) nei giorni nostri ha, si sa, un posto in penultima fila. A noi però l’opportunismo disinvolto della capa del governo d’una nazione che non perde occasione per farsi vanto della propria superiore civiltà e il cinismo del capo politico di un’alleanza nel cui statuto è scritta la difesa della democrazia e della libertà dei popoli (per chi ci crede, certo) provocano un senso di discreto disgusto. Tanto più che il norvegese Stoltenberg dovrebbe avere una grande consapevolezza di che cos’è – e da dove viene veramente – il terrorismo, considerato che il 22 luglio del 2011 scampò a un attentato compiuto da un giovane norvegissimamente neonazista mentre suo figlio rischiò di morire insieme con altri 69 coetanei nella strage di Utøya compiuta dallo stesso eroe della supremazia dell’Occidente.

Ma lasciamo stare gli aspetti morali e consideriamo la questione sotto il profilo politico. L’eventuale consegna a Erdoğan di quelli che lui considera “terroristi” porterebbe con sé alcune conseguenze che meritano molta attenzione. Vediamone alcune.

La prima è che l’accettazione del baratto comporterebbe una sanzione giuridica al riconoscimento del carattere di organizzazione terroristica non solo al PKK (i cui membri sono considerati già “terroristi” dal governo americano oltre che da quello turco) ma anche alle altre organizzazioni politiche in cui si articola la diaspora curda in Europa. Anche l’Unione europea, nel 2002, su forti pressioni dell’amministrazione Bush, iscrisse il PKK nell’elenco delle organizzazioni sospette di terrorismo, ma l’iscrizione stessa è sub judice alla Corte di Giustizia, è stata dichiarata nulla da vari tribunali nazionali e finora non ha mai prodotto conseguenze pratiche.

Una minaccia per la diaspora degli esuli

Se invece in qualche modo uno stato europeo riconoscesse il principio che è la Turchia a stabilire chi è terrorista, il giudizio potrebbe investire tutte le formazioni e i partiti della diaspora, dall’irakeno Partito democratico curdo all’Unione patriottica del Kurdistan al Partito democratico del Kurdistan iraniano al siriano Partito dell’Unione Democratica. Tutte organizzazioni presenti e attive in diversi paesi d’Europa. Particolarmente odiosa sarebbe la discriminazione del YPG, l’unità di protezione popolare che ha avuto un ruolo fondamentale nella guerra contro l’Isis in Siria ma che – anche proprio per questo – i turchi considerano un nemico da annientare. Molte decine di migliaia di profughi curdi in Europa, a cominciare dai tantissimi che vivono nei paesi del nord, perfettamente integrati al punto da eleggere deputati nel parlamento svedese, si ritroverebbero emarginati, considerati con sospetto, potenziali vittime di estradizioni verso la Turchia.

Combattenti dell’YPG contro l’Isis

Conviene all’Europa? No. Come non conviene assolutamente avallare la politica che in nome dei timori che Stoltenberg giudica “legittimi” il regime di Erdoğan sta praticando in Siria e in Iraq. La NATO e tutti i governi occidentali hanno giustamente condannato l’invasione della Russia in Ucraina e l’occupazione di intere regioni di quel paese, ma, a parte (appunto) la Svezia e la Finlandia, che hanno decretato quell’embargo alla fornitura di armi al regime di Ankara la cui eliminazione ora Erdoğan imperiosamente reclama, non hanno avuto nulla da dire contro la Turchia che ha fatto esattamente la stessa cosa nel nord della Siria e compie continue incursioni contro i curdi in Iraq. E se tutti in occidente si sono scandalizzati a buon diritto per le affermazioni di Putin sulla “non esistenza” dell’Ucraina, giacché – così ha sostenuto – gli ucraini sarebbero russi che non sanno di esserlo, nessuno ha da ridire quando Erdoğan sostiene che un popolo curdo non esiste perché si tratterebbe di comunità di “turchi di montagna”. Una clamorosa manifestazione di doppiopesismo che fa il paio con un’altra dai risvolti pratici moralmente ripugnanti: le forze di Erdoğan nelle loro operazioni “fuori area” utilizzano armi fornite dai paesi alleati nella NATO (anche l’Italia) per massacrare i miliziani del YPG che tutto l’occidente applaudì quando nel 2017 liberò la “capitale” islamista Raqqa segnando l’inizio della fine dell’Isis (nonostante aiuti e complicità sotto banco che già allora ai fondamentalisti arrivavano da Ankara).

Gli scenari dei due mari

Un’ultima conseguenza del favore che l’occidente si preparerebbe a fare al regime di Erdoğan ha effetti meno immediati ma, alla lunga, forse anche più pesanti. È stato notato da molti osservatori che proprio il rafforzamento della NATO a nord con l’ingresso di Svezia e Finlandia determinerebbe un notevole indebolimento della Russia nell’area del Baltico, esponendo San Pietroburgo alla minaccia permanente di un blocco navale e rendendo molto problematici i collegamenti con la exclave di Kaliningrad. Ciò accentuerebbe le tentazioni di Mosca a riprendere la storica tendenza ad espandersi verso i mari del sud, che appare in tutta evidenza attualissima guardando alle operazioni militari che i russi stanno svolgendo in Ucraina, con la completa “russificazione” del Mar d’Azov, di una larga fascia a nord della Crimea e la (possibile) estensione dell’offensiva verso e fin oltre Odessa, a tagliare al controllo di Kiev l’accesso al mare ricostituendo  il territorio della cosiddetta Noworossija strappata alla fine del XVIII secolo all’impero ottomano.

Il Mar Nero visto dallo spazio

L’esito di questo disegno – se c’è – dipenderà dall’andamento della guerra, ma la tendenza pare essere proprio quella: uno spostamento degli interessi strategici russi dal Nord, il Baltico, al Sud, il Mar Nero. Ma come esiste un neoimperialismo russo di cui Putin è l’interprete più aggressivo, esiste anche un neoimperialismo turco. Il primo rimpiange lo zar, il secondo il sultano. Esiste, il secondo, da un bel po’ di anni, con il sistema di alleanze e di vere e proprie tutele che Ankara è andata costruendo pazientemente e senza che nessuno in occidente se ne curasse più di tanto dall’Azerbaijan alle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale di ascendenza osmanica.

La tentazione di giocare le aspirazioni turche per mettere un freno alla Russia o ricacciarla indietro potrebbe cementare una fatale retrouvaille su una comune ostilità verso l’orso al di là del Mar Nero tra la NATO e la Turchia dopo anni di freddezze, sospetti, separatezza in casa e tradimenti consumati. Insomma, un ulteriore fattore di tensione in una parte d’Europa in cui i nazionalismi prosperano e si consolidano. E che l’occidente sta riempiendo di armi micidiali.