Stelle e fringuelli
in un lago di pace

Possiamo ben immaginare un tempo in cui, nell’infanzia della razza umana, qualche intraprendente mortale strisciava in una cavità della roccia per trovare rifugio. Ogni fanciullo, in qualche modo, ricomincia da capo la storia del mondo – e infatti ama stare fuori casa anche quando piove e fa freddo: gioca alla casa o al cavallo perché ne ha l’istinto. Chi non ricorda con quale interesse scrutavamo, da bambini, ogni roccia in declivio, o ci avvicinavamo a ogni spelonca? Era l’ardente naturale desiderio di quella parte del nostro primitivo progenitore che ancora sopravviveva in noi. Della caverna siamo passati alle capanne con il tetto di foglie di palma, di corteccia e di rami, di lino tessuto e poi teso, d’erba e di paglia, di tavole e di tronchi, di pietre e di tegole. Alla fine non non sappiamo più cosa significhi vivere all’aperto, e sotto vari aspetti la nostra vita è più domestica di quanto non crediamo. Dal focolare al campo c’è una grande distanza. Forse sarebbe bene che passassimo la maggior parte dei nostri giorni e delle nostre notti senza alcun diaframma tra noi e i corpi celesti, e che il poeta non parlasse e il santo non abitasse tanto a lungo sotto un tetto. Gli uccelli non cantano nelle caverne, né le colombe nutrono la loro innocenza nelle colombaie.

Quando per la prima volta mi stabilii nei boschi, vale a dire quando cominciai a passarvi i giorni e le notti, era, per caso, il 4 luglio 1845, cioè l’anniversario della proclamazione d’Indipendenza. La mia casa non era finita, ancora, perché vi potessi passare l’inverno; adesso era solo una difesa contro la pioggia, senza intonaco o camino, e le pareti erano di rozze tavole di legno. La porta appena piallata, e i telai delle finestre, le davano un carattere pulito e arioso, specialmente la mattina, quando le tavole erano così gonfie di rugiada che immaginavo dovessero trasudare un dolce succo quando, a mezzogiorno, il sole le avrebbe asciugate. Per la mia immaginazione, essa conservava per tutto il giorno, più o meno, questa peculiarità dell’aurora.

I venti che passavano sopra la mia abitazione erano come quelli che sfiorano le sommità delle vette, portavano le melodie interrotte o, forse, solo i frammenti celesti, d’una musica terrena. Il vento mattutino soffia eternamente, il poema della creazione è continuo; ma poche sono le orecchie che riescono a udirlo.

Non occorreva che uscissi dalla porta per prendere aria, poiché l’atmosfera all’intorno non aveva perso nulla della sua freschezza, e stare in casa significava, più che “stare dentro”, “stare dietro a una porta” – persino nei giorni di pioggia torrenziale. Lo Harivamsa * dice: “Una casa senza uccelli è come carne non frolla”. Tale non era però la mia casa, ché, improvvisamente, mi trovavo accanto gli uccelli; non per averne imprigionato uno ma per avere chiuso in gabbia me stesso, accanto a loro. Ero vicino non solo ad alcuni di quegli uccelli che di solito frequentano gli orti e i giardini, ma anche a quei più selvaggi ed eccitanti cantori della foresta, che mai (o assai di rado) fanno la serenata agli abitanti dei villaggi, e cioè il tordo di bosco, il vanello, la tanagra scarlatta, il fringuello, il caprimulgo e molti altri.

Abitavo sulla sponda di un laghetto, circa un miglio e mezzo a sud del villaggio di Concord. Io abitavo così sotto, nei boschi, che il mio più lontano orizzonte era la riva opposta, lontana mezzo miglio e coperta di pini come tutto il resto. La prima settimana, ogni volta che guardavo il laghetto, mi pareva che fosse un lago, su, sul fianco di una montagna, con la parte inferiore molto più alta della superficie degli altri laghi; al sorgere del sole lo vedevo togliersi la sua notturna veste di nebbia e qua e là, lentamente, apparivano allora le morbide increspature o la liscia superficie piena di riflessi, mentre la nebbia svaniva furtivamente nei boschi, in ogni direzione, simile a fantasmi che ne andassero dopo qualche riunione notturna. La stessa rugiada pareva qui stare sospesa sugli alberi più lungamente che altrove, come sugli altri fianchi della montagna.

D’agosto, il laghetto era un ottimo vicino, negli intervalli di qualche modesto acquazzone, quando – aria e acqua perfettamente calme e immobili e cielo coperto di nubi – l’ora mediana del pomeriggio acquista tutta la serenità della sera, e il tordo di bosco cantava là presso, e lo si udiva dall’una all’altra riva. Un simile lago non è mai calmo come in questi momenti; e, essendo la serena porzione di cielo che lo sovrasta bassa e oscurata da nubi, l’acqua piena di riflessi e di luci, esso si trasforma in un cielo più basso, ma assai più bello.

Dalla sommità d’un colle là presso, dove gli alberi erano stati tagliati da poco, si godeva d’una piacevole vista a sud, oltre il lago, attraverso una spaccatura nelle colline che formavano la riva, dove gli opposti pendii, declinando l’uno verso l’altro, facevano pensare a un ruscello che scorresse in quella direzione, attraverso una valle boschiva; ma il ruscello non c’era. Da quella parte guardavo, attraverso e oltre le verdi colline vicine, verso altri colli più lontani e più alti sull’orizzonte, colorati d’azzurro. Alzandomi in punta di piedi, potevo anche scorgere qualche picco delle catene di montagna a nord-ovest, ancora più lontane e più azzurre, monete di puro colore coniate dalla zecca del cielo.

(Henry David Thoreau, “Walden ovvero Vita nei boschi”, 1845-1847)

* Libro sacro brahmino