Steccato di Cutro, quei fantasmi sulla spiaggia del naufragio

Erano in tanti sabato pomeriggio a Steccato di Cutro, sulla spiaggia del naufragio, gli occhi rivolti al mare, col vento che muoveva l’erba alta sulle dune e le bandiere. Tra capannelli di persone, si intravedeva qualche volto noto, il sindaco di Riace Mimmo Lucano, ad esempio, che aveva portato la croce per lunga parte del tragitto. Quella croce fatta del legno della barca avanzato alla tempesta, diventata anche la sua, di croce. Il canto funebre intonato dall’imam ha raccolto tutti in preghiera, ognuno lo ha fatto come sapeva e poteva.

Le testimonianze, quel vento le portava altrove, lontano, dove ci sono anche orecchie che non sentono e cuori duri. “Abbiamo pianto per 13 giorni, ora è il momento dello sdegno”, ha detto una donna. “Sono partito dal mio Paese dopo il ritorno dei talebani, qui a Cutro ho riconosciuto due miei parenti, il terzo è ancora in mare”- ha raccontato un afghano affranto nella sua lingua, tradotta da un connazionale in italiano – Sono giorni che aspettiamo che escano dalle onde. Ho riconosciuto oltre trenta persone, viste in foto, sui telefoni, nei video mandati dalle famiglie. Chiediamo scusa ai residenti se abbiamo bloccato la strada, ma servono rinforzi, prima che sia troppo tardi. La nostra sofferenza è grande”. E, poi, la testimonianza più straziante, quella di un siriano che nel naufragio ha perso il fratellino di sei anni, affidatogli dalla madre: “Non sono stato in grado di salvarlo. Il mio dolore sarà per tutta la vita”.

Ecco perché bisognava essere a Steccato di Cutro, anche solo spiritualmente. Non è mica facile spingersi fino a riva dove ci sono ancora pezzi del relitto, qualche scarpa spaiata, giubbini…Vederli rende meglio la grandezza di ciò che è accaduto qui e anche in altri luoghi. Non sarà più la stessa cosa andare in spiaggia, guardare l’orizzonte, sapendo che altre esistenze sono state inghiottite dagli abissi, aspettare abbracciati il tramonto o costruire castelli con i propri bambini, mentre i fantasmi dei mai diventati adulti aleggiano su quelle collinette di sabbia. E sfortunati sono pure gli abitanti di Cutro allora, che tanti cittadini negli anni hanno consegnato all’emigrazione. Lo testimoniano le abitazioni chiuse, le seconde case che aprono i battenti solo in estate alle famiglie residenti fuori e che tornano in paese, magari per la festa del santo patrono o il matrimonio del parente calabrese.

Passare tra quelle case nel giorno del corteo ha reso l’idea di cosa significhi partire per “fare fortuna” altrove: avere nuove aspettative di vita o cercare un riscatto personale. Qualcuno ce la fa, qualcun altro no. A Steccato di Cutro erano presenti entrambe le possibilità. Forse perchè queste si avverano e palesano soprattutto nei luoghi di frontiera, che oggi sono le coste del Mediterraneo meridionale, ma anche i confini alpini a est e ovest della penisola. Terre sfilacciate, strappate, da cui si parte anche per disperazione e in cui si arriva per lo stesso motivo. Sabato i fiori piantati sulla battigia, le coperte di Yusuf adagiate sulla sabbia o le rudimentali croci di legno sono diventati i simboli potenti di un’umanità che si riconosce, davvero, tutta sulla stessa barca, quando è capace di guardare oltre l’apparenza di carretta del mare per alcuni e di panfilo per altri. Tania Paolino