Spunta la “Moscovia”, un dubbio in più sulla strategia della Nato in Ucraina

La guerra si fa anche così: con le parole. E con la storia e la geografia. In Ucraina da qualche settimana si stanno raccogliendo firme sotto una petizione che chiede al governo di Kiev di non chiamare più la Russia Russia, ma Moscovia. La cosa era passata un po’ sotto silenzio finché Volodymyr Zelensky l’ha fatta in qualche modo sua chiedendo al capo del governo Denys Šmyhal di farla soppesare in sede accademica non solo in relazione al suo “contesto storico-culturale”, ma anche in vista delle “possibili conseguenze legali internazionali”.  Insomma, per i dirigenti ucraini non si tratta di una boutade propagandistica che vale quel che vale, ma di una questione politica seria. E come tale è stata registrata a Mosca dove, dopo una dichiarazione polemica ma contenuta della portavoce del ministero degli Esteri  Marija Zacharova, sull’argomento si è esibito con la solita sguaiataggine il vice presidente del consiglio di sicurezza (nonché ex presidente della Repubblica) Dmitrij Medvedev.

Ed erano appena risuonate le minacce e le insolenze del duro più duro tra gli uomini di Vladimir Putin che un brivido è corso per il mondo. Il drone americano abbattuto (deliberatamente, per errore?) da un jet militare con la stella rossa nello spazio aereo internazionale sopra il Mar Nero ha mostrato platealmente i rischi che l’escalation delle armi porta con sé. Questo incidente, si spera, potrà essere chiuso senza conseguenze, ma il prossimo? Gli strumenti di morte che si stanno accumulando in modo sempre più frenetico in quella zona di guerra sono “intelligenti”, certo, ma gli esseri umani non sempre sembrano esserlo altrettanto.

Un drone americano Reaper, come quello caduto nel Mar Nero

Lo Zar di tutte le Russie

Ma torniamo alla Moscovia e al suo repechage dai magazzini della storia da parte della propaganda di Kiev. L’argomento merita di essere approfondito anche nel resto del mondo. O almeno in Europa. Prima ducato, poi granducato, poi principato, Moscovia è il nome che ebbe la regione intorno a Mosca dall’invasione dell’Orda d’Oro mongolo-tartara alla metà del XIII secolo fino al 1547, quando Ivan IV detto il Terribile si autoproclamò zar di tutte le Russie e come tale fu consacrato, nel 1561, dal patriarca di Costantinopoli. “Tutte le Russie” erano tre: la Russia Bianca, la regione di Mosca che andava estendendosi verso est e l’Ucraina, ovvero la Piccola Russia (Malorossija), terra di confine verso occidente. Lo zarato di tutte le Russie un secolo e mezzo dopo sarebbe stato poi trasformato in impero russo da Pietro I Romanov, detto il Grande.

L’abbiamo fatta un po’ spiccia, ma insomma, sostanzialmente, chiamare Moscovia la Russia (quella attuale) è come negare la legittimità storicamente determinata dello zarato, poi dell’impero russo, quindi di quello sovietico e, venendo ai giorni nostri, della pretesa del capo attuale del Cremlino di far coincidere i confini della Federazione russa (o almeno la zona d’influenza di Mosca) con quelli che furono imperiali. Lo zarato, l’impero dei Romanov, l’impero sovietico e quello che ha in mente Vladimir Putin sarebbero stati e sarebbero fondati sull’arbitraria estensione del potere russo su terre che russe non erano, non sono e soprattutto, oggi, non vogliono essere.

Ivan IV il Terribile

Si capisce a questo punto che non si tratta di una questione linguistica. La petizione, e soprattutto la sua sponsorizzazione da parte di Zelensky, esprimono un retropensiero politico abbastanza chiaro. L’obiettivo della guerra contro Putin non è solo il respingimento della brutale invasione dell’Ucraina ma il ridimensionamento territoriale della Federazione russa. Un disegno che parrebbe sensato attribuire non solo agli attuali leader di Kiev, ma a quelli di quei paesi che hanno buone ragioni per temere l’aggressività del Grande Vicino: la Polonia, le Repubbliche baltiche, forse la Svezia e la Finlandia, e a sud-ovest la Moldova e la Romania.

Disarticolazione della Federazione

Sappiamo per certo che una possibile “disarticolazione” della Federazione russa è stata oggetto non solo di studi teorici di specialisti e think-tanks, ma anche di discussioni in seno agli organismi politici della NATO. Fino a questo momento, le ipotesi si sono fermate di fronte al muro di una autoimposta linea rossa: quella costituita dalla minaccia del ricorso all’arma nucleare da parte di Mosca nel caso in cui fosse in gioco “l’esistenza stessa” della Federazione russa, come più volte ha affermato Putin in persona. Ma è possibile, se non addirittura probabile, che in una parte dei paesi NATO il superamento di questa linea rossa non sia più un tabù assoluto, che si consideri la deterrenza atomica un bluff del Cremlino che sarebbe possibile andare a “vedere”.

Vale la pena di ricordare che già in almeno due casi i precedenti “non possumus” occidentali sono stati rimossi o hanno vacillato. Il primo riguarda l’eventuale fornitura a Kiev di caccia moderni in grado di garantire la copertura di una totale no-fly zone sull’Ucraina. Il timore degli occidentali era, come si è ripetuto per mesi e da un po’ si ripete però meno, che uno scontro aereo, anche accidentale, tra velivoli della Russia e velivoli di un paese occidentale potesse rappresentare un atto di guerra che avrebbe fatto scattare l’articolo 5 del Trattato NATO, quello per cui se le forze di un paese dell’alleanza vengono attaccate tutti gli altri sono obbligati a reagire in solido. Un drone disarmato, anche se volava con scopi bellici e di intelligence, non è un aereo in grado di abbattere mezzi nemici e si può ragionevolmente sperare che il suo abbattimento non configuri un caso di aggressione catalogabile sotto l’articolo 5, ma quello che è accaduto nel cielo sopra il mare teatro di guerra è comunque un pessimo segnale di pericolo. L’escalation delle armi non ha più il tabù dei cieli e promesse di rimuovere il blocco sono venute dai governi di diversi paesi (forse anche dall’Italia per quanto riguarda Tornado e Amx) e intanto piloti ucraini si stanno già addestrando sugli F16 in America. Il secondo riguarda sistemi d’arma in grado di raggiungere anche con una certa profondità il territorio russo.

Insomma, dietro la “petizione Moscovia” si nasconde il riflesso di inquietanti evoluzioni della dottrina strategica NATO nel senso di una escalation che riguarderebbe non solo i sistemi d’arma ma anche l’obiettivo politico della guerra? Non è dato saperlo e non lo si saprà fino a quando i governi occidentali e le istituzioni europee non chiederanno, e otterranno, risposte chiare da Washington e dai vertici politico-militari dell’alleanza. Ma per avere le risposte bisogna, prima di tutto, formulare le domande.

L’iniziativa cinese

Questo contesto di nebulosa incertezza che avvolge gli obiettivi ultimi della strategia occidentale in merito alla crisi ucraina rappresenta un po’ il contraltare all’accelerazione dell’iniziativa cinese sul piano in dodici punti, o il “documento di posizione” come l’hanno chiamato a Pechino con un ragionevole riflesso di prudenza, reso pubblico alla fine del mese scorso.

Manca la conferma ufficiale, ma ormai appare abbastanza sicuro che nel giro di qualche giorno (forse già la prossima settimana) il presidente Xi Jinping sarà a Mosca a colloquio con Vladimir Putin. Si parla poi di un colloquio a distanza che potrebbe avere con Volodymyr Zelensky. Come si ricorderà, la primissima reazione di Kiev al “documento” , espressa dal ministro degli Esteri Kuleba, è stata di cauto “interesse”, in netto contrasto con il muro di no alzato dall’amministrazione Bush, dai vertici della NATO e da alcune cancellerie europee.

L’interesse degli ucraini sarebbe stato acceso in particolare dal primo dei dodici punti, quello in cui si affermano rifiuto e condanna delle violazioni di sovranità degli stati. Nella interpretazione più ostile a Pechino, quell’affermazione avrebbe “anche” un carattere autoreferenziale riferito al contenzioso su Taiwan, che com’è noto a parere di Pechino è una “questione interna” della Repubblica popolare cinese, ma non c’è dubbio che potrebbe offrire ai governanti di Kiev una base giuridica fondata su un principio sancito dalla comunità internazionale e dall’ONU da cui poter far partire un eventuale, molto eventuale al momento, negoziato.

Qualche osservatore ritiene che la “messa in cassaforte” di quel principio potrebbe aprire agli occhi degli ucraini lo spazio per accettare un compromesso su un cessate-il-fuoco che congeli l’attuale situazione sul campo, fermo restando il loro sacrosanto diritto a rivendicare il ritiro dei russi dai territori occupati. Una situazione -s’è detto- del tipo di quella che esiste da quasi settant’anni tra le due Coree. Senza arrivare a tempi così insopportabilmente lunghi, la non belligeranza tra le parti potrebbe favorire l’intervento di mediazioni esterne o di meccanismi di gestione pacifica e concordata delle controversie. Si è parlato, ad esempio, dell’eventualità di organizzare sotto stretto controllo internazionale referendum in cui i russofoni delle regioni ora occupate dalle truppe di Mosca possano decidere sul proprio status.

Sulla base di quel che è accaduto finora con la guerra, e cioè il clamoroso fallimento dell’illusione putiniana secondo la quale i russi sarebbero stati accolti come “liberatori”, ci sono buoni motivi per pensare che, a parte la Crimea e forse il Donbass, la maggioranza, anche nelle zone russofone, opterebbe per restare con l’Ucraina e con la prospettiva di ritrovarsi, in futuro, nell’Unione europea. Il Cremlino potrebbe avere difficoltà serie a rifiutare il principio del ricorso al referendum visto e considerato che ha giustificato l’aggressione militare con la necessità di proteggere la libertà all’autodeterminazione nei confronti dei “nazisti” di Kiev…

Serve una discussione franca

La quantità dei “se” e dei “forse” che accompagna questi scenari dà conto dell’estrema difficoltà a parlare anche solo di tregue temporanee nel momento in cui la guerra infuria e da una parte e dall’altra c’è un percepibile interesse a consolidare le proprie posizioni: i russi gettando sempre nuove forze nella mischia con la tecnica sperimentata della carne da cannone su cui non porsi problemi morali, gli ucraini sperando che l’escalation delle forniture di armi che scavalca una dopo l’altra tutte le linee rosse li metta in condizione di respingere totalmente gli invasori.

Una cosa è certa: gli Stati Uniti e i paesi della NATO dovrebbero mettere le carte sul tavolo con una discussione franca tra le diverse posizioni che esistono al loro interno e chiarire molto bene il senso e la portata del loro sostegno a Kiev. Che cosa significa affermare che l’obiettivo è “vincere la guerra”? Che gli ucraini ricaccino gli invasori, che Putin sia costretto a lasciare il potere o che la Russia, cacciata dal novero delle grandi potenze, ritorni dentro i confini di cinque secoli fa? Urgono risposte.