Spiagge a gara, Meloni tra le pressioni dell’Europa e il no dei balneari
Può un granello di sabbia marina bloccare la macchina del consenso della destra? Può una Direttiva europea minare alla base il castello di esagerate promesse fatte dal sodalizio Meloni-Salvini-Berlusconi ai balneari, una delle categorie economiche più rumorose e agitate del paese? Per le risposte bisogna iniziare da questo nome: Frits Bolkestein, anziano liberale olandese che ha dato il nome ad una liberale Direttiva europea su servizi e concorrenza.
All’epoca dell’emanazione della Direttiva, Bolkestein non era più commissario europeo (aveva terminato il mandato nel 2004, con Prodi) e il suo testo aveva subito modifiche in senso un po’ meno liberale. Siccome “Bolkestein” è più facile da ricordare della sigla 2006/123/CE ecco perché la Direttiva è conosciuta col nome del politico olandese.
La Direttiva Ue “Bolkestein” bestia nera dei bagnini
“La Bolkestein” in certi ambienti italiani non è mai stata sinonimo di diritto ed equità. Se interrogate un “balneare”, nel senso di concessionario di attività economiche sull’arenile demaniale (l’arenile in teoria è un bene comune), lui partirà con mille maledizioni all’amico Frits e vi dirà che per la tutela dei suoi interessi si affida alla destra.
I più incarogniti sono i balneari toscani, ma anche quelli laziali non scherzano: loro, più di ogni altro, hanno le concessioni sulle quali è stato possibile fare forti investimenti su mega strutture; i più tranquilli, invece, sono i veneti dove il demanio è già affidato ad una società mista pubblica e privata di cui i bagnini di fatto sono dipendenti. Pare o no la via veneta al socialismo?
In mezzo a questi estremi ci sono una miriade di situazioni alle prese con un grosso problema: le concessioni demaniali vanno messe a bando con procedura di evidenza pubblica come stabilisce “La Bolkestein”. Significa che la pubblica amministrazione deve individuare il miglior contraente sul libero mercato.
Poi ci sono un’infinita serie di altri problemi localizzati. In provincia di Rimini, ad esempio, sullo stesso lotto di spiaggia a volte convivono tre categorie: i ricchi bagnini che affittano gli ombrelloni, il “ceto medio” dei chioschisti con i bar e i ristoranti, i “proletari” mosconai che noleggiano i pedalò.
Ancora: nelle spiagge a più alto sfruttamento turistico, come le romagnole, il 20% di arenile dovrebbe essere lasciato all’uso collettivo e siccome la quota attuale è più bassa occorre ridisegnare i lotti, “stringere” quelli concessi e fare posto alle spiagge libere.
A proposito di spiagge libere, fa discutere l’intemerata di Daniela Santanché: per lei dovrebbero andare a bando solo le libere, “ricettacolo di drogati e sporcizia”. Non è esattamente il miglior messaggio promozionale che poteva inventarsi la ministra del Turismo.
Il demanio pubblico deve andare a bando
Dunque concessioni a bando quasi ovunque. L’alternativa è la procedura europea di infrazione che all’erario italiano costerebbe carissima. Siccome i liberali di casa nostra sono per la tutela dei profitti dei singoli e per la collettivizzazione delle perdite non si esclude che la destra porti il paese in questo precipizio.
Quando e come i bandi? La scadenza, sulla carta, è il 28 febbraio stabilita dal governo Draghi, l’unico che tra gli esecutivi un carica dal 2006 ad oggi ha avuto il coraggio di mettere mano alla materia. La data non è tassativa perché riguarda la delega al governo per avviare le procedure delle evidenze pubbliche ed è probabile che Meloni prenderà tempo. Tuttavia il problema non potrà essere rinviato di anni. Oramai la giurisprudenza, italiana ed europea, ha stabilito che non esistono alternative alla concessione delle spiagge con le evidenze pubbliche.
La battaglia giudiziaria è iniziata quando la Regione Emilia-Romagna prorogò le concessioni di 25 anni come riconoscimento degli investimenti fatti dai balneari e la legge venne impugnata dal governo davanti alla Corte costituzionale che ne decretò l’illegittimità. In seguito altre Regioni provarono con le proroghe ma vennero sempre fermate dai governi di qualunque colore e bocciate dalla Corte costituzionale perché la concorrenza nei servizi è di esclusiva competenza nazionale.
La materia è approdata anche alla Corte di giustizia europea: stesso esito sfavorevole ai balneari. Pure il liberale Monti col suo governo tentò la proroga al 2033 e venne ammonito dalla Commissione europea. La “proroga Monti” è stata svuotata un paio d’anni fa dal Consiglio di stato in seduta plenaria, esito ribadito dal governo Draghi. A breve tornerà ad occuparsene nuovamente la Corte di giustizia europea ma neanche il più ottimista dei balneari si fa illusioni.
Balneari, taxisti, ambulanti: un paese pieno di rendite di posizione
L’Italia è piena di rendite di posizione che prescindono dalla concorrenza e vanno dalle varie tipologie di balneari ai taxisti passando per le postazioni degli ambulanti. Per la destra è un passaggio insidioso. I voti dei soli balneari, 6-7 mila concessioni in tutto, non sono il problema principale. Però le tre categorie “concesse” fanno massa critica e il mondo politico al completo ha sempre commesso l’errore di sopravvalutarle, oltre che di chiudere gli occhi su redditi leggeri come piume.
Meloni ha davanti a sé un percorso minato e presto dovrà fare i conti con la realtà. In ballo c’è il rapporto con l’Europa e volendo estremizzare, ma neanche troppo, c’è la permanenza stessa dell’Italia nell’UE perché il principio della libera concorrenza, sottolineato dalla Corte costituzionale, fa parte dei trattati europei e dunque è scolpito nella pietra.
La logica dice che, per lo più, le evidenze pubbliche riguarderanno dei comparti omogenei. Concorrerà alla conquista dell’arenile non solo chi farà la migliore offerta economica ma anche chi potrà dimostrare professionalità e ideazione. Potrebbero vincere gli stessi concessionari attuali, ovviamente, e così perpetuare il quasi secolare passaggio familiare di generazione in generazione della spiaggia, interrotto spesso dai subentri (il mercato è fiorente, i prezzi reali nelle località di mare li sanno tutti e sono stratosferici). Ma non è detto che alla prova della sfida del libero mercato gli uscenti riescano a succedere a se stessi.
Santanché vende il Twiga a Briatore e fidanzato e “risolve” il conflitto di interessi
Il nodo più difficile da sciogliere riguarda gli investimenti pregressi. I balneari chiedono la certezza dell’equo risarcimento per tutto quello che hanno messo sulle spiagge – spesso ridondante e ancora più spesso inamovibile – ma la normativa non lo consente. In Francia, per dire, le concessioni vengono rinnovate di quinquennio in quinquennio e alla fine di ogni stagione il bagnino toglie le sue strutture.
Per immaginare quali siano gli interessi in ballo torna utile ancora Santanchè. La ministra, che possedeva il 22% del “Twiga” di Forte dei Marmi, ha venduto le sue quote per metà a Briatore e per l’altra metà al fidanzato, entrambi suoi soci balneari e ha incassato all’incirca 3 milioni. Il grande stabilimento paga un canone di 17.600 euro l’anno (l’importo dei canoni è una vergogna ovunque). Santanché ha poi detto candidamente di avere risolto il suo conflitto d’interessi.

Come se ne viene fuori?
Per Maurizio Melucci, assessore regionale al Turismo in Emilia-Romagna dal 2010 al 2014, la situazione è a un punto di non ritorno: “O vengono indette le evidenze pubbliche, compito che dopo tutti i pronunciamenti in materia dei Tar e del Consiglio di stato sarebbero obbligati a fare i dirigenti della pubblica amministrazione, o la Commissione europea apre una procedura di infrazione contro l’Italia”.
Sinceramente – prosegue Melucci – non credo che il governo si spingerà a tentare un’altra volta la strada della proroga delle concessioni. Io nel 2010 insieme a Raffaele Fitto, allora ministro come lo è oggi, avevo concordato una soluzione che sembrava a entrambi coerente con la Bolkestein e attenuava, ma ovviamente non eliminava, i rischi di estromissione per i concessionari uscenti. Non se ne fece nulla. Adesso è più difficile coi riflettori accesi e con i precedenti giurisprudenziali che si sono accumulati. Il passaggio è stretto e fotografa bene la differenza che esiste tra i proclami politici e l’onere di governare”.
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