Via il veto sovranista
ma ancora in salita
la strada della ripresa

Il blocco provocato dalle minacce di veto da parte dei sovranisti d’Ungheria e di Polonia è stato superato, forse più per la rivolta della società civile nei due paesi che per l’iniziativa della presidenza tedesca del Consiglio europeo. È un fatto positivo, ma guai a pensare che tutti i problemi che si trovano sulla strada del grande progetto cui si è dato il nome di Next Generation EU siano scomparsi d’incanto. La corsa ad ostacoli della ripresa europea non finisce con la presidenza tedesca ed è stato un po’ troppo ottimista il capo del governo italiano Giuseppe Conte quando ha dichiarato: “Ora avanti tutta con la fase attuativa: dobbiamo solo correre”.

Ieri, nella sua prima reazione al compromesso che ha sbloccato il veto, l’autocrate ungherese Viktor Orbán, quello che ha introdotto nella sua costituzione l’ossimoro della democrazia illiberale, ha sostenuto che Bruxelles ha vinto “il buon senso”.

Viktor Orban e Jaroslaw Kaczynski

Il buon senso c’era – avrebbe detto Alessandro Manzoni – ma se ne stava nascosto per paura del senso comune, che è cosa spesso in contrasto con la saggezza di cui deve essere dotata collettivamente una società.

Un compito non facile

A meno di un poco probabile atto di ribellione del Parlamento europeo, che tornerà a riunirsi dopo dieci mesi a Strasburgo il 14 dicembre, la cancelliera Merkel si avvia a percorrere trionfalmente l’ultimo  giro della sua corsa ad ostacoli europea avendo raggiunto un equilibrio fino a due giorni fa impensabile fra gli interessi conflittuali di ventisette governi nazionali.

Non sarà tuttavia facile nei prossimi mesi districarsi nel coacervo di regolamenti ancora provvisori che saranno destinati a rendere operativi nello stesso tempo il bilancio pluriennale 2021-2027 e il piano triennale per la prossima generazione europea (Next Generation EU).

Innanzitutto va considerato che  la questione della difesa dello stato di diritto non si chiude certo con il ritiro del veto che è stato imposto a Budapest e Varsavia.

Nonostante la “dichiarazione interpretativa” partorita dalla fervida immaginazione della diplomazia di Berlino per salvare il semestre di presidenza tedesca e consentire ai governi polacco e ungherese di sentirsi liberi da quello che ritenevano un inaccettabile “arbitrio politico” della Commissione di Bruxelles, i trattati e le leggi europee lasciano ancora degli spazi di manovra europei:

Angela Merkel

in primo luogo alla Corte di Giustizia, che non ha mancato in passato di far sentire la sua voce, ma anche al Parlamento europeo, dove tre ex-primi ministri polacchi hanno creduto opportuno avviare un’azione contro il Consiglio europeo per abuso di potere. Poi anche in Polonia e Ungheria, dove appaiono delle crepe nelle stesse maggioranze al governo, e nella stessa Commissione europea che il Consiglio europeo ha cercato di defraudare dei suoi poteri.

Le ratifiche nazionali

In secondo luogo non siamo ancora giunti alla fase attuativa del piano per la prossima generazione che deve passare attraverso le forche caudine di ventisette ratifiche nazionali per consentire alla Commissione di creare 750 miliardi di debito pubblico  europeo.

La morale che si dovrebbe trarre da questa vicenda, dalla protervia con cui i governi polacco e ungherese hanno minacciato di bloccare tutto usando il diritto di veto, è che è più che mai necessaria ed urgente l’apertura del cantiere sul futuro dell’Europa per gettare le basi di una nuova Unione dopo la pandemia.