Spagna, la scommessa di Pedro Sanchez

Un monocolore socialista in Spagna, con l’Europa che va da tutt’altra parte. Sembrerebbe un’anomalia ma lo è fino a un certo punto. Ad archiviare la lunga stagione di Rajoy – sette anni – è stato sì “el Guapo” Pedro Sanchez, ma sull’onda di una spinta anti-establishment che ha saputo orchestrare non senza qualche malumore nelle stesse file del Psoe. Le cronache ci raccontano la freddezza di Zapatero e di Felipe Gonzales, messi solo in conoscenza della mozione di censura contro il premier del Pp, un partito marchiato a fuoco dalle condanne per corruzione al termine di un processo che sembrava destinato a durare per sempre senza un esito definitivo e che invece ha spedito dietro alle sbarre il tesoriere Luis Barcenas (33 anni) al quale Rajoy è rimasto vicino fino all’ultimo.

Essere passato indenne tra crisi economica e indipendentismo catalano, aveva convinto Rajoy che anche questa tempesta sarebbe passata nonostante le aule giudiziarie abbiano svelato un tessuto corruttivo tanto diffuso nel suo partito da diventarne una struttura portante (900 i popolari implicati nelle varie inchieste). E invece con la sfiducia costruttiva, Pedro Sanchez ha messo insieme nazionalisti baschi e catalani, lavorando in tandem con Podemos di Pablo Iglesias, ispiratore dello scacco al Pp. Fuori dalla partita solo Ciudadanos, partito che da tempo si propone come alternativa pulita ai popolari e che sperava di poter tirare le reti con un voto anticipato.

A favorire l’azzardo di Sanchez – 84 deputati appena su 350 – una congiunzione favorevole, l’allineamento dei pianeti politici che per ragioni diverse comunque convergevano a favore di una soluzione che evitasse il passaggio delle urne. El Guapo ha rassicurato i baschi, che avevano appena beneficiato dei finanziamenti previsti nel bilancio di Rajoy (540 milioni di euro) ma che temevano elezioni dove Ciudadanos è favorito. Il leader socialista ha mostrato un volto dialogante ai catalani di Esquierra repubblicana e PDeCat, che sostengono il neonato esecutivo di Barcellona guidato da Quim Torra, fedelissimo di Puigdemont.

Per Sanchez è anche una rivincita personale, dopo le dimissioni da segretario del Psoe in seguito a una sconfitta elettorale disastrosa con il partito ridotto al 22%, il peggior risultato di sempre. Messo ai margini nel Psoe per la disponibilità a dialogare con Podemos, Sanchez nel 2017 si è rimesso in carreggiata da solo, battendo la Spagna palmo a palmo per vincere di nuovo le primarie e tornare in sella.

Ora si propone di governare con una manciata di voti, senza un’alleanza codificata con Podemos, ma cercando di volta in volta la maggioranza con una navigazione a vista. Se ce la farà o meno è tutto da vedere. L’intenzione è quella di arrivare a fine legislatura nel 2020, i pronostici per ora non vanno oltre il 2019, con il voto delle europee e delle amministrative.

Sanchez ha il vantaggio di un Paese in crescita stabile, con la disoccupazione in calo e nessuna fibrillazione sui mercati. C’è margine per un tentativo, che se dovesse riuscire potrebbe restituire un po’ di vitalità al Psoe e magari porre le basi per nuove formule politiche. Il monocolore socialista non potrà andare molto avanti senza una collaborazione con Podemos, formazione che ha avuto accenti molto critici verso l’Europa. La difficoltà dell’alleanza sta nel trovare una sinergia rinnovandosi senza tradire la propria storia, il rischio di venire fagocitati dall’onda anti-sistema è sempre in agguato per un partito “vecchio” come il Psoe.

L’altro versante dove Sanchez potrebbe fare la differenza è sulla questione catalana. Il Psoe ha sostenuto la linea Rajoy e l’attivazione dell’articolo 155 che ha svuotato l’autonomia di Barcellona con metodi autoritari e spesso anche ridicoli (vedi il divieto del colore giallo, scelto dai nazionalisti di Catalogna, con sequestro di sciarpe, ombrelli e persino alberi di Natale). Ma i socialisti hanno sempre criticato la linea di chiusura del Pp, che con Rajoy ha bloccato il nuovo Statuto sull’autonomia regionale,approvato invece dal governo socialista di Zapatero.

Anche Sanchez difende l’unità nazionale, sostenendo però la necessità di una riforma di tipo federalista, che superi la Costituzione del 1978 e risolva una volta per tutte le tensioni regionali. L’insediamento di un nuovo governo a Barcellona nelle stesse ora in cui si voltava pagina a Madrid apre ora qualche spiraglio. Sia Sanchez che Quim Torra hanno parlato della necessità di dialogare. Sette mesi sotto l’art. 155 per ora sono solo serviti a rafforzare il fronte indipendentista (ultimi sondaggi favorevoli 48%, contrari 44), ma uscire dalla logica del muro contro muro è già un passo avanti. Si fa l’ipotesi di un vicepremier catalano per Sanchez, a Barcellona sperano quanto meno nel riavvicinamento in Catalogna dei detenuti politici, oggi in carceri castigliane.

Con numeri tanto esigui e alleati tanto diversi la strada di Sanchez è tutta in salita. Il rischio dell’immobilismo è dietro l’angolo e il Psoe potrebbe pagarne ancora le spese. Ma a Sanchez va almeno il merito di aver deciso che non è più la stagione per stare a guardare.