Scontro nel PD.
Ma il partito
è riformabile?
«Davvero pensate che possiamo arrivare fino a ottobre con il M5S che si rifonda con Giuseppe Conte, con Salvini che usa il potere e poi bombarda il quartier generale come ai tempi del Papeete? E possiamo arrivare a ottobre con un partito che il lunedì dice che si sta dissolvendo, il martedì è contro il codice appalti, il mercoledì dice che Salvini è diventato un leader europeista però abbiamo problemi con il M5S?”. Sono le domande, poste da un Nicola Zingaretti meno equilibrista del solito durante la Direzione del partito di lunedì, che danno la misura dello stato di salute del Pd. Poco buona, diciamo. La febbre sale in modo preoccupante ed è difficile tenerla sotto controllo perché non sono pochi quelli che, invece di somministrare antipiretici, sottopongono il corpo debilitato a micidiali correnti fredde.
Siamo alle solite: è ricominciata la caccia al segretario, nell’illusione che basti cambiare il comandante per consentire a una nave un po’ sgangherata di riprendere una navigazione tranquilla, magari anche con l’orchestrina a bordo. Il Pd in 14 anni di vita (è nato il 14 ottobre del 2007) ha cambiato sette segretari. Di media uno ogni due anni. Seguendo questa consuetudine c’è chi vorrebbe anticipare nell’autunno di quest’anno l’elezione del nuovo segretario, che è prevista da statuto nel 2023 con lo strambo sistema delle primarie aperte a ogni passante. Perché, dicono gli oppositori di Zingaretti – guarda caso quasi tutti renziani, non si capisce ancora se davvero ex – il mondo è cambiato, siamo in un’altra epoca. E quindi che sia duello all’ultimo voto.
Un disastro da gestire
Che il mondo sia cambiato non ci sono dubbi. In due anni Zingaretti ha dovuto gestire il disastro elettorale e politico ereditato da Matteo Renzi, fare opposizione al governo Conte-Salvini, accettare obtorto collo di andare al governo con i Cinque Stelle, subire la scissione da parte di quello che prima non voleva nemmeno prendere un caffè con i grillini e poi ha spinto per farci un matrimonio, affrontare la bufera sanitaria, politica ed economica del Covid e gestire infine il passaggio difficile che ha portato al governo Draghi. Ora, non voglio assolutamente difendere il segretario del Pd – che troppo spesso pensa, sbagliando, che un basso profilo sia adatto a questi tempi e alle sue sfide – ma guidare un partito attraverso tutte queste prove non è cosa facile. Soprattutto se nella tua squadra c’è chi fa di tutto per far segnare gli avversari (o l’avversario, un tempo capitano della stessa squadra).
Ma sgomberiamo il campo dalla questione della leadership perché porta fuori strada. Non è questo, infatti, il problema del Pd. Non è sicuramente quello principale. Il vero tema – che è sul tappeto da 14 anni, cioè sin dalla fondazione e non è mai stato affrontato seriamente – è il seguente: che cos’è il Pd? Se non si scioglie questo nodo, tutto il resto è noia, che eccita solo gli amanti dei giochetti politicisti.
Finora sono coesistiti, a tratti in equilibrio ma troppo spesso in conflitto, tanti Pd dentro il Pd: il partito liberal, quello moderato, quello di sinistra, quello di centrosinistra, quello centrista, quello macroniano e via elencando. Nel corso della storia i vari segretari hanno cercato di volta in volta di interpretare, in maniera preponderante, uno di questi Pd sulla base delle loro inclinazioni, cercando di accontentare le altre anime usando come contrappeso la distribuzione del potere, soprattutto quello di governo. La famosa unità delle tradizioni politiche e culturali riformiste che era alla base della nascita del partito non è mai avvenuta. Si è assistito invece a una balcanizzazione che ha ridotto il Pd a una federazione di tribù e di correnti sempre in lotta tra loro.
Il problema con cui fare i conti
Questo è il tema con cui il Pd dovrebbe fare i conti fino in fondo. Sono anni che sentiamo ripetere che bisogna discutere dell’identità. Ma se non è chiara l’identità, un partito che partito è? E infatti alla fine, come si vede anche in questo passaggio, si risolve tutto in una guerra dei nomi, dei posti e del potere. Invece la questione centrale è sapere, appunto, chi sei. Ma per sapere chi sei non basta definirsi semplicemente “dalla parte delle persone”, come recita uno slogan di Zingaretti che campeggia all’ingresso del Nazareno. Perché dire persone non significa nulla. Il fondamento della politica – lo ricorda Michele Prospero nel suo libro su Karl Marx (leggi qui) – è nel conflitto sociale. Quindi il Pd deve decidere quali sono i soggetti sociali di riferimento. E deve farlo soprattutto ora che sta per iniziare un grande processo di ristrutturazione del sistema produttivo che ridisegnerà, con i fondi del Next Generation Eu, il panorama socio-economico del Paese. Un processo che sarà guidato da un premier ex banchiere, circondato da ministri ex banchieri o tecnici sistemati nei posti chiave in un governo in cui la sinistra rischia di essere marginale.
Vogliamo lasciare a loro, e solo a loro, il potere di decidere quale sarà l’Italia dei prossimi decenni? O non vuole invece il Pd – insieme a Leu, alla sinistra, al volontariato e alle organizzazioni sociali che abitano nelle periferie e che avrebbero molto da dire – interpretare le aspirazioni del lavoro (e al lavoro) in questa fase che è destinata a ridefinire il rapporto con il capitale? Dipende da queste scelte il tipo di equilibrio che ne uscirà fuori e quindi anche il profilo del nostro futuro.
Un congresso vero
Ecco: sarebbe bello assistere a un congresso vero in cui si discutesse finalmente (per tesi ed emendamenti o come volete) di questo e non di alchimie politiche, di nomi, di posti, di correnti oppure di fragili tregue interne. Perché se si sciolgono quei nodi lì – chi sei, che cosa vuoi e per chi ti batti – poi ne discenderà anche il nome del segretario e ne discenderanno le alleanze possibili, che non possono essere mai a prescindere, come se la politica fosse una sorta di gioco dell’oca in cui basta azzeccare la casella giusta per vincere e stare sempre al governo.
Alla fine però, visto che sono trascorsi invano quattordici anni e questa operazione identitaria non è mai stata compiuta con coraggio, resta una domanda. Anzi, la domanda delle domande: ma il Pd è in grado di fare tutto questo? Detto in modo ancora più brutale: il Pd è ancora riformabile?
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