Senza internazionalismo del welfare
non si risolve lo scontro
tra i paesi frugali e l’Europa
Per comprendere l’atteggiamento dei paesi “frugali” non servono approcci pseudo-antropologici (i nordici inumani e indifferenti), quelli ideologici infondati (il welfare nazionale porta al nazionalismo), quelli autorazzisti (è giusto non si fidino di noi che buttiamo i soldi). Il problema è che siamo tutti immersi in un contesto europeo che induce integrazione di mercato senza vero internazionalismo.
Se vacilla il “sistema Ghent”
In Scandinavia, per esempio, l’autentica pietra angolare dei sistemi nordici, i redditi di disoccupazione del cosiddetto “sistema Ghent”, vacilla. Essa un tempo offriva non solo reddito in caso di disoccupazione, ma anche tradizionalmente la più elevata sindacalizzazione al mondo, nonché una notevole solidarietà di classe. Per esempio il livello di sostituzione del reddito si aggirava intorno al 90% per i bassi salari mentre per le categorie meglio retribuite era minore. Il fine era costruire una grande ed attiva forza democratica del lavoro che escludesse gradualmente lo sfruttamento come metodo competitivo. Purtroppo è un’istituzione che si va deteriorando: in Danimarca 333.000 lavoratori sindacalizzati, a causa dei tagli degli ultimi lustri, hanno dovuto sottoscrivere un’assicurazione aggiuntiva per contare su un livello accettabile di trattamento nella (col Covid esplosiva) eventualità di averne bisogno. Una federazione sindacale aderente alla confederazione generale (HKprivat) è riuscita a garantire ai propri iscritti un trattamento complessivo, cioè inclusivo di cassa sindacale cofinanziata dallo Stato, nuova assicurazione aggiuntiva e quota d’iscrizione sindacale. Così l’organizzazione non arretra e la privatizzazione non sfonda.
Ma i problemi più gravi rimangono: l’assicurazione aggiuntiva significa più spese per i lavoratori, inoltre, le categorie più soggette a licenziamenti e minori retribuzioni non riescono a stipulare un’assicurazione simile, e la forza unitaria della classe lavoratrice dunque arretra. Per i meno fortunati (sindacato 3F o Hk Handel) come per i più fortunati (Hk privat) l’origine del problema è la medesima: il sistema Ghent era gestito dai sindacati e alimentato da quote dei lavoratori e padronali, ma a renderlo così inclusivo e solidale, nei decenni, sono state le quote devolute mediante il fisco. È così (fra le altre cose) che la socialdemocrazia ha rinforzato l’unità e la forza della classe lavoratrice in un istituto di welfare non universalistico ma (nonostante ciò che si crede) fondamentale per i sistemi nordici. Tuttavia, nel tempo questa quota pubblica si è progressivamente ridotta. Il motivo è complesso, ma può essere individuato nel declino dell’internazionalismo del welfare, cominciato negli anni 1980 e che la UE, con le proprie regole, accentua senza scampo.

Ritrovare un internazionalismo del welfare
Per “internazionalismo del welfare” intendo un contesto in cui si poteva contare sul fatto che l’espansione di welfare e salario (che avveniva ovunque) facesse da traino reciproco. Allora, quindi, l’interesse delle classi lavoratrici era più componibile sia nei singoli paesi sia fra di essi: se ottengo maggiori diritti e minore sfruttamento ciò non mi danneggerà come categoria o come sistema-paese perché anche altri faranno lo stesso. Se andrò in deficit la crescita di welfare e salari altrui mi aiuterà a risolvere. Se il mio debito crescerà molto ciò sarà rimediabile per lo stesso motivo. E le istituzioni multilaterali erano pensate per regolare questa realtà. Viceversa, nel contesto presente i paesi più avanzati come welfare e salari (appunto quelli nordici) sono costretti ad agire in modo contraddittorio al proprio modello, e comunque non più (come facevamo un tempo) “internazionalista”. Come del resto fa l’Italia, che ha perseguito e purtroppo persegue l’impoverimento del salario (e del mercato interno) in modo sistematico. Tutti cercano di esportare mentre tutti tagliano o contengono la domanda interna (soprattutto welfare e salari).
E c’è dell’altro: i paesi nordici nel regime presente sono particolarmente esposti alle bufere internazionali (il grave collasso svedese e finlandese dei primi anni 1990 per esempio, ma anche quello danese degli anni 1980). Dunque, per essere al riparo da speculazioni o crisi come l’attuale (o come quella di appena dieci anni fa!) devono agire nell’unico modo permesso (benché contraddittorio): esportano più che possono e usano dei surplus commerciali enormi non (più) per irrobustire il welfare, ma al contrario (soprattutto) per ridimensionare il debito pubblico, anche se esso è ormai al 40% del Pil o, nel caso svedese, persino meno.
È il contesto ansiogeno in cui le attuali regole ci costringono: specie in paesi che sanno di non essere “troppo grandi per lasciarli fallire” (cosa che noi in qualche misura invece siamo) si cerca la riduzione isterica del debito pubblico, sia perché ciò pone relativamente al riparo da speculazioni sia, d’altro lato, perché, in casi di crisi come il Covid-19, è possibile effettuare misure costose di rilancio e salvataggio solo se si parte da livelli di debito del 40% sul Pil o meno. Anzi, la Svezia, per ragioni storico-istituzionali che ho spiegato altrove, ha estremizzato questo, addirittura evitando assurdamente di “chiudere” l’economia.
Perché la Danimarca potrebbe “scendere dall’albero”
Ovviamente, nel frattempo il sistema sociale si era impoverito. Da qui le resistenze nordiche riguardo al bilancio europeo riformato per mettere su le misure europee. Peraltro, va valutato quanto Danimarca e Svezia siano fortemente indebitate sul piano privato, cosa che peraltro ha una corrispondenza con il fatto che il debito pubblico sia basso: le due grandezze sono spesso in una relazione inversamente proporzionale. Insomma: la prospettiva di crisi da Covid e di decenni di sacrifici costati tagli al welfare, se si aggiunge l’alto indebitamento privato, è pessima per propagandare trasferimenti netti verso altri paesi in fondo quasi altrettanto ricchi.
Sia chiaro: un certo grado di necessità del Recovery Fund penetra il dibattito dei nordici che anzi, entro certi limiti, come si dice nel politichese di Danimarca, “stanno scendendo dall’albero” (capiscono di dovere cedere). Di tutto questo è esempio un dibattito che ho ascoltato, fra un esponente socialdemocratico danese e una dei socialisti popolari (che sostengono a Copenaghen la socialdemocrazia al governo).
L’esponente socialdemocratico ha affermato qualcosa di sensato: “non è vero che non siamo solidali: siamo tra i pochissimi a finanziare la cooperazione internazionale per lo sviluppo ai livelli di Pil prescritti dalle Nazioni Unite. Ma non sappiamo come evolverà la crisi, non sappiamo come essa colpirà la Danimarca. Non possiamo consentire cifre a fondo perduto perché la nostra gente reagirebbe male. L’unica cosa è convertire in aiuti parte dell’attuale bilancio Ue. Per esempio ai danni del bilancio agricolo che interessa la Francia. Se accettassimo di trasferire risorse da noi a loro, invece, fra i danesi crollerebbe proprio la popolarità della Ue”. Per questo, condizioni di riforma del bilancio Ue possibili per i nordici sono che nuove tasse (sulle plastiche, sul Co2, sulle transazioni Google ecc.) vadano a comporlo. Ma a patto che ciò eviti aggravi per loro, e che a incamerarle siano comunque i paesi membri, che poi le devolveranno alla Ue per la parte competente. Insomma, nelle condizioni che abbiamo descritto, e nella loro natura di paesi non grandi, non possono avallare un automatismo federale di spesa che possa anche solo potenzialmente trascinarli.
La esponente socialista popolare (Socialistisk Folkeparti) ha giustamente fatto notare che però senza un mutamento di passo il crollo della fiducia nella Ue potrebbe avvenire nei paesi mediterranei e in Francia, il che sottoporrebbe a grave crisi la Danimarca stessa. Ovviamente anche il deputato socialdemocratico concordava, ma rimane il fatto che decenni di regole che (per le ragioni dette) sono anti- internazionaliste, ovvero anti-reciproche, rendono tutto molto più difficile. Specie difficile da spiegare a chi, avendo contribuito lungamente alla propria assicurazione per la disoccupazione, oggi si vede presentare trattamenti miseri, o alternativamente conti aggiuntivi, a causa dell’isteria da debito pubblico indotta dall’ideologia UE vigente da decenni. Che non accenna a sparire.

Come eliminare la competizione dei bassi costi
A spiegare la necessità di tornare ad un regolato, ma netto, spirito internazionalista è proprio l’allusione che l’esponente socialdemocratico ha fatto agli aiuti per la cooperazione allo sviluppo. Quella pratica (che sopravvive) deriva esattamente dai tempi dell’internazionalismo socialdemocratico. Studiosi come Samuel Moyn (da leggere il suo: Not Enough, Human Rights in an Unequal World, 2017) la chiamano “welfare world”. Significava appunto che la socialdemocrazia ai tempi della propria egemonia era impegnata a rendere possibile la costruzione in ogni paese (anche del sud globale) di welfare e capacità produttive autonome, anche concedendo, oggi impossibile, un periodo di relativo protezionismo per edificarle. Il fine era eliminare gradualmente la competizione da bassi costi, addivenendo ad un tipo di stabilità internazionale con, in ultima analisi, crescenti e più sostenibili fonti di domanda complessiva. Questo era per i socialdemocratici nordici allo stesso tempo fine ideologico e interesse nazionale. È proprio questa corrispondenza fra utilità ed idealità, nonché fra interessi delle classi lavoratrici e medie nelle diverse nazioni, che nella UE di oggi è improponibile. E non basta il Recovery Fund, comunque formulato, a mutare le cose finché lo sfondamento sistematico e prolungato dei pavimenti di diritti e salari non avrà invertito la tendenza.
Dunque: si devono disapprovare i “frugali” per le loro intrinseche contraddizioni, ma comprendendo cosa le induce, senza anatemi antropologici del tutto sterili. Il che peraltro ci farebbe guadagnare anche nel senso di rifiutare l’autorazzismo: l’ammirazione stolta per i popoli virtuosi mentre noi non lo siamo. Come si vede i presupposti materiali per la vera virtù vanno costruiti. Non sono innati. Tanto meno sono per definizione patrimonio di alcuni.
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