Se la videolezione
ci fa sentire umani
e più vicini
Dall’inizio della quarantena sei giorni su sette si accende il computer – fortunato io ad averlo – per l’appuntamento quotidiano con la scuola. Mi ritrovo a scrutare in quel mare di pixel e vedo tutta l’umanità che non avevo mai visto. Quei volti che credevo così familiari ora mi appaiono estranei e sconosciuti. Dopo 5 anni trascorsi insieme in un’aula li conosco davvero solo ora, nell’intimità delle mura domestiche. È paradossale. C’era bisogno di un virus per gettare la maschera di precettore e quella di allievo, per spezzare le catene della normalità e della routine quotidiana. Far deragliare il trantran della didattica e rimettere tutto in discussione.
Soffocati dall’ansia di portare a casa il programma, di avere la media buona, dal desiderio comune di chiudere l’anno e passare oltre, avevamo dimenticato questa parola. Umanità. E non crediate che sia un ingrediente indispensabile per raccontare la vita dei grandi, la storia di popoli o per scrivere qualche equazione, anzi. Quando non è l’insegnante a mantenere le distanze lo fa lo studente, a rimarcare la separazione di due mondi inconciliabili per definizione. Ma adesso è tutto diverso. Persino il docente più ruvido e intransigente costretto dietro allo schermo, seppur involontariamente, si rivela in tutta la sua umanità, nella fragilità, nelle paure e perché no, nelle sue piccolezze.
C’è chi è visibilmente assalito da dubbi, insicurezze, timore di non farcela. Di non essere pronto dopo 30 anni di insegnamento tradizionale a rimettersi in gioco e affrontare il digitale, un cambiamento così netto e radicale imposto dall’alto e in tutta fretta. Chi al contrario rinvigorisce nell’ostentare sicurezza ad ogni costo: prima regola del Fight Club, mai mostrarsi debole di fronte al nemico! Ma adesso, lì dietro a una webcam ecco che crolla. Stavolta ha a che fare con qualcosa che non può assolutamente controllare: noi, 23 alunni che seguono la sua lezione da uno smartphone. Esatto, un telefono! Lei, che alla vista di un cellulare in classe diventava “una iena”. Lei, acerrimo nemico di chi fa foto, video o registra ciò che non dovrebbe. Ora vede la sua professione ridursi proprio a quei 5 pollici di display, uno scherzo del destino.
E poi c’è chi, invece, mantiene imperterrito il solito aplomb: con il sole o con la pioggia si interroga ad oltranza. Questa è la filosofia. Niente sconti, si fa ciò che va fatto. Con il solito vestito d’indifferenza cucito addosso si affronta la vita a colpi di nichilismo, sempre aggrappati a quell’unica certezza dell’incertezza. Supererà anche questa, ne è certo, protetto nella sua alcova di libri. Il volto si staglia in video tra il Simposio e il Capitale, paparazzato e moltiplicato su 23 piccoli schermi. Una frantumazione dell’essere che è costretto a sopportare.
È come se tutto, filtrato da quei pixel, venisse restituito incredibilmente amplificato e vero. È crollato un muro di apparenze, caduto il velo (di Maya). E per la prima volta dopo tanto tempo, nel disagio e nella difficoltà della quarantena ci si sente finalmente liberi di essere quel che si è, svelati nell’informalità delle mura domestiche.
E si vede. Si vede nell’ora di scienze, quando un effetto di chroma key artigianale sostituisce il colore bianco dell’armadio sul fondo con l’immagine del ponte di Brooklyn o della galassia, mentre si parla di biomolecole e legami chimici. “Per darvi respiro”, dice.
Si vede in quel che resta dell’ora di educazione fisica. Da sempre mezzo sordo per un infortunio, insegnante reduce da una carriera agonistica mancata, ora è collegato con le cuffione indosso e finalmente sente tutto. Mentre parliamo di app e videolezioni, per mantenersi in forma anche chiusi in casa, non si perde una parola, come un bambino davanti al suo cartone animato preferito.
Si vede all’inizio della prima ora, con il Prof di turno che dopo l’appello virtuale ti chiede “ragazzi, allora come state?”, senza avere la volontà di ascoltare una risposta che non fa in tempo ad arrivare. “Prendete pagina 268”, si sbriga a dire. Meglio non sapere come stanno, pensa, poi potrebbero voler sapere come sto io.
Perché hai voglia che ci dicono di stare lontani, ma in questa didattica a distanza siamo anche fin troppo vicini.
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