Sinistra:
il socialismo
non è una bestemmia
Martin Wolf ha recentemente pubblicato sul “Domani” un testo ampiamente condivisibile sul nesso intimo fra il neoliberismo di Milton Friedman e la reazione nazional-populista. Vincenzo Visco, sul medesimo quotidiano, argomenta altrettanto condivisibilmente che “il liberismo non è di sinistra”. Questo è molto positivo non per avversione al libero commercio, ma perché con il precetto “il liberismo è di sinistra” alcuni liberali hanno prescritto a comunisti e socialisti (non a caso tutti ex) che la ricetta della modernità era sbarazzarsi del socialismo, sebbene da decenni fosse inteso non come economia di comando burocratico, ma come spirito critico verso il capitalismo a disposizione della democrazia.
Una società meno plurale è un danno
Ancora: per “liberismo” si è intesa (e praticata) la distruzione di quelle regole che permettevano a chi vende la propria manodopera di potere decidere su un piano di maggiore parità se accettare un certo lavoro o trattarne la natura. O, visto che era praticata l’alta o piena occupazione, cercarne un altro. Come è ormai provato, questo ha concesso al capitalismo italiano (ma come è noto anche tedesco ed europeo) di trovare soluzioni competitive senza industriarsi troppo ad investire ed innovare. Pessimo per tutti: per un società europea che diventando meno plurale socialmente sconta regressi qualitativi evidenti. Ma pessimo specie per noi, che con il capitalismo privato perlopiù sottodimensionato che ci ritroviamo avevamo particolare bisogno del “profitto differito”, ovvero di un investimento pubblico in grado di guardare più lontano mentre l’innovazione che era disseminata produceva frutti.
Questo ci conduce ad un’altra questione: si è indebolita la dialettica pubblico-privato a favore dello strabordare del secondo, e con essa il pluralismo. Intendiamo il pluralismo dei valori, delle soluzioni, delle culture politiche, restringendo in modo asfittico ciò che si può anche solo immaginare. Il morti del ponte Morandi sono esattamente il risultato di quanto poco al “pubblico” sia stato concesso contendere soluzioni alla logica del mero e immediato profitto. In una voragine molto meno tragica, ma letale anch’essa, era precipitato quindi anche il concetto di politica del “Centrosinistra” italiano.
Alla ricerca delle utopie provvisorie
Un grande socialista svedese, Ernest Wigforss (un ministro, non un sognatore) rifiutava la formula per cui la “politica è l’arte del possibile”. Avrebbe rifiutato anche il marketing politico “L’arte dell’impossibile” con cui, in “Borgen”, la protagonista Birgitte Nyborg si ripresenta con un nuovo partito ed una nuova “comunicatrice” fotogenica rubata alla televisione. Secondo Wigforss per ogni socialista democratico la politica è invece “l’arte delle possibilità”. Ovvero usare la capacità politica per spostare il confine di ciò che è concesso. Il concetto di Wigforss illumina meglio quanto stiamo dicendo: occorre affermare e praticare che esistono ulteriori possibilità, e che sono migliori del presente. E poi occorre contendere il confine. Ed occorre dire che questa ricerca continuerà, che il socialismo democratico è (come diceva sempre Wigforss) “utopie provvisorie”.
In generale il ritorno all’invasione totale delle regole del mercato significa non tenere conto che una società davvero innovativa e pluralista non può che regredire se la logica già in partenza più potente (quella di chi ha il capitale) comprime sotto un certo grado (di gran lunga superato da lustri) le altre.
E qui possiamo tornare a Martin Wolf: quanto egli afferma sul “Domani” è più o meno quanto aveva scritto Karl Polany esaminando il capitalismo che aveva condotto alla Grande Crisi (la quale, come sappiamo, non fu in sé maggiore di quelle che stiamo vivendo noi). Nell’assenza di regolazione democratica le esigenze di comunità e società nazionali si sentono spazzate via e reagiscono. Se la “sinistra” pratica una politica che è “arte del possibile” in senso remissivamente liberista, quelle comunità reagiscono in altro modo. Ai tempi di Polany si insinuò in questo iato un fascismo aggressivo, oggi (per ora) un nazionalpopulismo difensivo.
Riconoscere un ruolo al lavoro e al salario
Ecco il nesso che mostra Wolf, per cui praticando Friedman i tories britannici alla fine eleggono Boris Johnson. Ecco il nostro nuovo “momento Polany”. Le società democratiche sconfissero il fascismo militarmente, ma soprattutto per 40 anni lo scacciarono dal dicibile grazie ad una politica che, molto più di oggi, ammetteva (e praticava) “utopie provvisorie”. La regolazione non fu assolutamente chiusura protezionista, tutt’altro. Ma nemmeno mera ricerca ossessiva dello sbocco di mercati, disposta a spianare le società esistenti alle proprie esigenze. Regolare in modo (almeno) paritario il rapporto fra capitale e lavoro, ad esempio, significò una forza del lavoro assurta a principale stimolo innovativo. E quindi una competizione plurale, partecipata, inclusiva.
Così, allora, l’apertura del commercio mondiale non fu il liberismo di Friedman, ma la pratica dell’interdipendenza in cui al lavoro e al salario era riconosciuto un ruolo, e dunque anche alla democrazia. Per questo, nel 1978 il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti non vide che il 43,6% di abolitori. La ragione è che, nonostante le vigorose proteste anti-sistema di quegli anni, nonostante il proto-populismo dei radicali, nonostante che finanziamento informale ed illecito della politica fossero già notoriamente praticati, i cittadini poterono valutare l’altro piatto della bilancia, su cui c’era molto peso. A nessuno allora sarebbe saltato in mente di dire che i seggi in parlamento sono troppi.
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