Se Ferrara siede al tavolo di Travaglio
Si è svolta in questi giorni una polemica tra Sofia Ventura e Giuliano Ferrara che merita di essere ripresa. Ventura invoca Arendt, il giudizio, insomma l’abc di un liberalismo ragionevole e critico contro il cinismo che a suo dire sposta Il Foglio di Cerasa su inattese posizioni filogovernative. Dinanzi alla singolare convergenza tra Ferrara e Travaglio, che prevede nel copione anche le carezze a Zagrebelsky, l’elogio di Mauro e il recupero del curriculum “buonino ma imperfetto” dell’avvocato del popolo, Ventura non ha torto nell’esprimere un certo stupore.
Del resto anche Biagio De Giovanni si è detto sorpreso dalla parabola di Ferrara nella interpretazione delle ultime questioni della politica quotidiana. Ventura ha ragione politicamente, nel far valere cioè una voce critica contro la deriva populista in corso, ma incorre in una forzatura per così dire tecnico-filologica quando riconduce lo spirito comprensivo di Ferrara verso i grillini (ora in certa misura apprezzati per quello che sono e che fanno) alla eredità del totalitarismo novecentesco. Che si tratti di un equivoco concettuale lo lascia ipotizzare il fatto che, sul governo e sui suoi rappresentanti di spicco, un giudizio opposto a quello di Ferrara sia maturato in tre intellettuali che a vario titolo hanno svolto un ruolo molto importante nella cultura comunista.
Tronti, De Giovanni, Cacciari, da angolazioni differenti e per questo interessanti negli esiti, convergono in una lettura senza sconti che prevede accenti molto severi sul governo, sulla figura stessa di Conte, sulle culture politiche, chiamiamole così per convenzione, oggi trionfanti. Anche il politico per eccellenza togliattiano, come Macaluso, non è mai stato tenero con l’esecutivo e con lo “spogliarellista” Casalino, come lo chiama, che dirige da par suo le scenografie del governo pop. Peraltro, le parole più dure, veramente di fuoco, sulla disarmante connotazione populista del governo sono state espresse da un vecchio socialista come Formica. Questo per dire che proprio chi ha una cultura novecentesca è ben attrezzato a recuperare talune categorie infallibili (e senza l’approfondimento politologico sollecitato da Ferrara) per leggere dinamiche degenerative che il linguaggio corrente denomina “governo di svolta”.
E Ferrara allora? Anche per un profilo strettamente estetico-linguistico, desta non poca meraviglia la sua non tanto infatuazione, ma di sicuro comprensione simpatetica per un presidente del consiglio che parla in questi letterali termini: “non possiamo tollerare che arrivano dei migranti addirittura positivi e vadino in giro liberamente”. Va bene il realismo che incoraggia chi nel maneggio “si evolve”, ma non va confuso con le creature del reality a sfondo teologico trasferite dal nulla a palazzo Chigi.
Dire che il peggio è il “truce” e che una variante provvidenziale dello stellone italico tramuta anche gli attori più sprovveduti in strumenti di una armonia prestabilita (i ribelli più parolai si convertono magicamente in incalliti conservatori) ha poco a che fare con il realismo politico. Acconciandosi sullo stesso sgabello di Travaglio, Ferrara non si rivela un realista cinico, come crede Ventura. Al contrario è un ottimista della ragione che per eccessiva bontà ha perso il polso del reale e non riesce più a leggere con la cattiveria necessaria i processi e i personaggi in corso. Egli semplicemente coltiva illusioni tardo-leibniziane, la più colossale di esse è quella per cui questo accrocco trasformista (l’aggettivo ha una valenza storico-tecnica non spregiativa e moralistica) non solo sia l’antidoto contro i “sopranisti” ma rappresenti anche una garanzia per governare con efficacia una fase economico-sociale che si prevede disperata.
E’ il puro regno edificante che aspetta miracoli da piccoli diavoli saliti al governo. Un realista non potrebbe mai trascurare l’asimmetria tra il debole ritrovato trasformista e la forte degenerazione delle credenze collettive, lo spaesamento di massa che produce il “sopranismo”. Che la risorsa del potere per il potere, contrattato senza discontinuità, legittimazione, svolta politica (che sorprende i cinque stelle coltivare gli stessi appetiti spartitori dell’Udeur mentre sfornano uno dei loro “storici decreti” che già hanno sconfitto la povertà e garantito la felicità), sia un ben servito al “truce” è un convincimento non già cinico, ma ingenuo e così zeppo di cattiva empiria non diagnosticata con distacco da risultare di tipo romantico e mistico, direbbe un grande del Novecento.
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