Se ci governerà l’algoritmo: come difendere la nostra democrazia
PARTE SECONDA – Il lettore che avesse avuto la pazienza di leggere la prima parte di questa riflessione sa già di cosa si parla. Ad uso e consumo di chi non l’avesse letta, ricorderemo che siamo partiti dall’illustrazione di natura e caratteristiche di uno degli ultimi nati nel mondo dell’intelligenza artificiale (il software chatGPT), per spostare l’attenzione sulla difficoltà per gli ordinamenti di disciplinare il tema, e sui rischi – per la tenuta dei nostri sistemi democratici – connessi allo sviluppo delle applicazioni di intelligenza artificiale “ad alto rischio”, ossia in settori strategici. Abbiamo accennato in particolare ai temi della sicurezza e del lavoro. In questa ripresa, partendo dagli effetti che le applicazioni di intelligenza artificiale sono suscettibili di determinare nel sistema della comunicazione e dell’informazione, concluderemo con alcune considerazioni di natura più squisitamente politica circa la necessità di concentrare sul governo dei processi di innovazione digitale una più forte attenzione e competenza.
Un nuovo salto di qualità
A proposito di ChatGPT, e di quanto di più sofisticato lo seguirà a stretto giro, si sente dire che non ci sarà più bisogno di redazioni umane e che a scrivere articoli, approfondimenti, commenti e quant’altro, sui giornali e nei TG, provvederà l’intelligenza artificiale. Da qualche anno il tema della disinformazione online (sia quella orchestrata dall’alto, sia quella generata e resa virale dai social) occupa un posto di rilievo nel dibattito pubblico. Ora siamo a un nuovo salto di qualità. La disponibilità di enormi quantità di dati di ogni genere da parte delle grandi piattaforme digitali, combinata con le tecniche di apprendimento automatico (machine learning), che si giovano di reti neurali digitali progettate per emulare i processi elaborativi del cervello umano e di una potenza di calcolo inimmaginabile (il calcolo computazionale), permette ai soggetti che hanno la potenza di fuoco e le economie di scala necessarie a mettere sul piatto investimenti miliardari, di candidarsi sempre più a diventare padroni e monopolisti dell’informazione globale (non ha caso la prima reazione a chatGPT arriva da Google, come abbiamo visto nella prima parte di questa riflessione). Qui siamo dinanzi ad uno di quei temi nodali su cui si gioca la qualità dei nostri ordinamenti, atteso che tutti i fenomeni che investono il sistema dei media – a partire dalla credibilità, dalla trasparenza e dall’autorevolezza delle fonti – hanno effetto sulla formazione delle opinioni pubbliche, sulla ricerca e la costruzione del consenso, sul grado di trasparenza dei pubblici poteri, e, in definitiva, sulla saldezza e la qualità delle nostre democrazie. Non dovremmo dimenticare che l’attacco al Congresso americano del 6 gennaio 2021 era eterodiretto via social e si alimentava della spazzatura della disinformazione ivi propalata a quattro mani.
Sicurezza, lavoro, giustizia, informazione. Si potrebbe continuare con formazione, istruzione, sanità. È probabile che non ci siano ambiti di intervento in cui presto l’intelligenza artificiale non assumerà un ruolo determinante nel governo dei relativi processi. E non è necessario essere super-tecnologi, ingegneri plurilaureati o sofisticati filosofi della scienza, per avanzare il dubbio che l’inarrestabile marcia dei processi tecnologici richiede una capacità di governo di cui al momento le classi politiche non sembrano particolarmente dotate. Nella settimana passata, per giorni e giorni, il dibattito politico si è concentrato sul tema delle accise sui carburanti, e l’intero sistema dell’informazione si è lasciato ingabbiare in questa notiziola di cronaca fino a fare dello sciopero dei benzinai (48 ore, divenute poi 24 misere ore) la notizia da prima pagina.
Tratti idelogici e identitari
Ecco, se questo è il tono del dibattito, c’è poco da stare allegri. La politica continuerà a litigare ancora sulle accise, e la destra di governo a perseverare nell’invenzione di un problema migranti, che è tema puramente ideologico e identitario, del tutto estraneo a qualsiasi logica o ragionamento di natura politico-economica. Ci sono settori cruciali della nostra economia, a cominciare dal lavoro agricolo in tutta la sua filiera, che sarebbero letteralmente paralizzati senza la forza lavoro straniera. Due settimane fa l’ennesima ricerca (questa volta di Bcg, Boston Consulting Group, in collaborazione con Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite), dal titolo “Migration Matters: a Human Cause with a $20 Trillion Business Case”, ribadisce un paradigma stranoto: la carenza di manodopera è un fenomeno ormai cronico di tutte le economie avanzate. Per quanto riguarda l’Italia, il Sole 24 Ore dava notizia il 4 gennaio scorso di uno studio Unioncamere secondo cui quasi un lavoratore su due è di difficile reperimento. E però abbiamo un governo e un ministro dell’Interno che sprecano tempo a redigere risibili regolamenti intesi a imbrigliare l’azione delle navi delle Onlus che salvano vite nel Mediterraneo. Ideologia, al posto della politica. Altro che governo dei processi di innovazione digitale. Parliamo di accise sui carburanti e non di Intelligenza artificiale. Drammatizziamo quattro sbarchi e non gli effetti del cambiamento climatico. Su queste basi il dibattito sugli effetti dell’irruzione di diavolerie come chatGPT è delegato nella migliore delle ipotesi alla comunità scientifica e le scelte strategiche da compiere sono faticosamente messe in campo in affannosa e spesso vana rincorsa alle innovazioni imposte dai grandi protagonisti globali della rete.
Circa 30 anni fa Francis Fukuyama ci regalò il suo celebratissimo e citatissimo The End of History and the Last Man (New York, Free Press, 1992). Una narrazione che lo stesso autore, in tempi più recenti, ha dovuto ripetutamente rivedere e correggere. Secondo Fukuyama, al chiudersi del XX secolo, crollato l’impero sovietico, avremmo assistito ad un culmine inarrivabile e irreversibile di civiltà e di trionfo della democrazia grazie alla definitiva vittoria del liberalismo (e del capitalismo). L’analisi storica ed economica – ma soprattutto le evidenze dell’ultima crisi finanziaria globale del triennio2007-2009 e, nel 2022, lo scenario devastante di una guerra guerreggiata nel cuore dell’Europa – hanno svelato tutta l’illusorietà di questa costruzione teorica sulla pretesa fine della storia. Ciò che abbiamo sotto gli occhi è in realtà un pianeta che galoppa verso una vera e propria esplosione dei conflitti globali a tutti i livelli: aumento delle disuguaglianze su scala globale; crescita dei conflitti locali, interetnici e religiosi; moltiplicazione delle falangi estremiste a tutte le latitudini; espansione e perfezionamento di modelli antidemocratici persino ai margini e dentro l’Europa; derive di depauperamento delle risorse del pianeta; cambiamenti climatici connessi alla insostenibilità dei prevalenti modelli di sviluppo. L’ottimismo di Fukujama e dei suoi innumerevoli adoranti epigoni sembra ormai del tutto fuori contesto. Non vorrei che si ripetesse oggi una analoga acritica celebrazione dei processi di innovazione tecnologica, di cui fra altri 30 anni potremmo amaramente pentirci.
Una sfida per la politica
In un lungo saggio appena pubblicato da Mondadori, Federico Faggin, il padre del microprocessore sulla cui invenzione poggiano buona parte delle più sofisticate applicazioni digitali che usiamo ogni giorno, ammonisce sulle derive dei processi di innovazione. Non c’è bisogno di sposare il suo rovesciamento di ottica, la sua probabilmente velleitaria ambizione di rifondare i principi della fisica quantistica, il suo disegno di una nuova cosmologia che ha i tratti (fondamentalmente) di una riscoperta spirituale e religiosa, per esprimere una più modesta e sommessa preoccupazione su dove stiamo andando. Non si tratta di arrestare l’innovazione, ma di chiedersi costantemente entro quale cornice di principi, entro quale progetto politico, entro quale architettura istituzionale, entro quale patto sociale, e soprattutto a quali fini, l’uomo debba sviluppare e utilizzare le tecnologie. Consapevoli che c’è un gap insuperabile tra processi materiali e riflessione teorica. Il diritto e le regole sono in continua, affannosa, talora vana, rincorsa delle dinamiche materiali. Serve molta intelligenza umana per invertire, con lungimiranza, il processo e capire prima dove stiamo andando. Se continueremo a scoprirlo dopo, non renderemo un buon servizio alle future generazioni che abiteranno il pianeta. C’è un compito più sfidante per la politica?
La prima parte dell’articolo è stata pubblicata il 2 febbraio sotto il titolo “Se ci governerà l’algoritmo: i rischi dell’Intelligenza Artificiale“
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