Scuola, il ministro
non affronta
le vere emergenze

Al termine dei singoli colloqui dell’esame di Stato, nel portico dell’antico liceo bolognese di pasoliniana memoria, dove insegno filosofia, ci sono le tradizionali bottiglie di spumante stappate a conclusione delle prove in un giovane risuonare di applausi e risa liberatorie, cosi squillante da salire fino alle finestre delle aule dei piani più alti dell’edificio scolastico. Ci sono pure gli amici, anche se non più di uno o due, e alcuni genitori, ma pochi studenti decidono di presentarsi a sostenere l’esame di Stato con l’accompagnatore previsto e ammesso, nel caso in cui il candidato lo desideri, dal protocollo di sicurezza approntato dalle scuole italiane in epoca pandemica.

Un’inchiesta sulle condizioni della scuola

Che il rito resista in uno dei suoi templi moderni più importanti come la scuola non stupisce e per certi versi può rassicurare, così come non stupisce, per quanto invece sia sconfortante, che il ministro Bianchi abbia scelto come primo atto significativo, in sintonia con gli ultimi ministri prima di lui, di imprimere il suo sigillo personale sull’esame di Stato, con tutte le ennesime ed estenuanti variazioni burocratiche che ciò comporta. Va da sé che dopo un anno scolastico difficile come quello che si sta concludendo non c’era alcuna necessità di modificare ulteriormente un esame già ridotto a colloquio dalle contingenze pandemiche della prima ora e che nei fatti non è poi così diverso rispetto a quello precedente, voluto dal ministro Lucia Azzolina.
Auspicabile sarebbe invece conoscere lo stato reale della scuola italiana per potere pensare e attuare una strategia politica capace di migliorare sul serio la situazione: ci vorrebbe, per usare un’espressione che rinvia alla storia italiana ottocentesca, un’inchiesta sulle condizioni dell’istruzione pubblica in Italia, in modo da non disperdere gli investimenti a disposizione in decisioni estemporanee, più o meno dettate dalla propaganda del momento. In questione è, in altri termini, la promozione di un’analisi empirica, affidata a esperti nominati dal parlamento e non soltanto dal governo, che sia animata da un’attenzione particolare alle scuole delle zone disagiate, sapendo che queste non si trovano necessariamente soltanto in una parte del territorio nazionale: la distinzione fra nord, centro e sud, infatti, è inadeguata a dare conto di tutta la diversità che caratterizza, nel bene e nel male, l’Italia.

Docenti e didattica

Una chiara e demistificata conoscenza dello stato delle singole scuole è, in altri termini, la condizione per poter procedere a progettare interventi basati su specifici bisogni e capacità, a dare corpo ad un’autonomia scolastica che rimane quasi sempre mera prassi formale, a emancipare dal livellamento professionale ed economico i docenti. È incredibile, infatti, che non ci si voglia rendere conto che la mancata differenziazione dei docenti – che andrebbe promossa in primo luogo sulla base della loro didattica, da considerarsi a partire dalla valutazione anonima effettuata dagli studenti e dal successo scolastico di questi ultimi nell’anno scolastico successivo e nell’accesso universitario – isterilisca più di un’intelligenza, riducendo l’insegnamento a un ripetitivo lavoro impiegatizio, privo di efficacia formativa.

Insieme al ‘nuovo’ esame di Stato a farla da padrona è purtroppo la solita retorica, tanto vuota quanto irritante, che riduce all’espressione verbale irrilevante, perché del tutto separata da un agire pensato, l’importanza della scuola in un paese che si ritiene civile e soprattutto responsabile del suo futuro. Ecco allora il moltiplicarsi di corsi di formazione per docenti, non sempre tenuti da personale scientificamente qualificato, frequentati spesso per obbligo, nei quali parole fondamentali come inclusione o valutazione assumono un carattere sempre più burocratico. Intanto le preoccupazioni dichiarate in modo reboante sono tutte per gli studenti e non tanto per le loro eventuali carenze formative, anzi su quelle meglio non soffermarsi più di tanto, ma soprattutto per la loro socialità, indebolita dai mesi di didattica a distanza, come quasi quotidianamente ricordano politici e mezzi di informazioni, insieme agli improvvisati psicologi che ogni scuola ha la ventura di scoprire fra il personale docente (di certo non fra quegli insegnanti, e sono molti, che nei mesi pandemici hanno ripensato con intelligenza la loro professione per mantenere una relazione didattica che consentisse agli studenti di procedere nel loro percorso di crescita intellettuale). Di qui la decisione governativa di investire, si fa per dire, denaro pubblico nell’organizzazione di corsi estivi dedicati alla creatività, all’espressività corporea, al ballo moderno e ai più disparati laboratori, senza preoccuparsi più di tanto di come si tornerà a scuola a settembre, a conferma dell’atavico e consueto procedere inerziale proprio del sistema scolastico e più in generale dell’Italia, che porterà però di sicuro a concludere il prossimo anno scolastico con un nuovo esame di Stato.