Scozia, la premier lascia: l’indipendenza è un rebus
Ha colto nuovamente tutti di sorpresa. Questa mattina uno dei politici più rispettati d’Europa e di gran lunga il più rispettato nel Regno Unito ha improvvisamente annunciato le sue dimissioni. A differenza della lunga serie di primi ministri britannici che si sono dimessi in disgrazia, in seguito a scandali e sconfitte, Nicola Sturgeon si dimette quando ancora gode di notevole popolarità sia in patria che in tutta Europa. In stridente contrasto con Boris Johnson, che ha dovuto essere trascinato fuori da Downing Street dopo settimane drammatiche ed estenuanti segnate dalle dimissioni finanche dei suoi più stretti collaboratori pur di convincerlo a lasciare, Sturgeon se ne va di sua volontà, quando nessuno se lo aspetta e quasi nessuno lo chiedeva.
Una prima ministra longeva
Se fosse rimasta al suo posto, avrebbe avuto buone chance di diventare la prima ministra più politicamente longeva d’Europa. A capo del governo da quasi 8 anni e mezzo (meglio di lei solo l’ungherese e decisamente poco democratico Orban, l’olandese Rutte e il lussemburghese Bettel) il suo mandato scadeva nel 2026 quando tutti i sondaggi suggeriscono che il suo Scottish National Party rivincerà a valanga le elezioni. Ed alla guida del governo era, effettivamente, da 16 anni, quando assunse il ruolo di vice-premier di Alex Salmond, il leader nazionalista che guidò il fronte indipendentista al referendum (perso di poco) nel 2014 e che qualche anno dopo litigò proprio con la Sturgeon dopo essere stato coinvolto (e poi assolto) in una vicenda di abusi sessuali. Vice leader del partito nazionalista scozzese fin dal 2004, la Sturgeon è stata all’apice della politica scozzese per quasi un ventennio.
Entrata in politica giovanissima, con la campagna per il disarmo nucleare (nel porto di Glasgow, dove è nata, sono di base i sottomarini armati di testate nucleari britanniche), e, come confessò in un’intervista del 2017, in odio alla Thatcher e alle sue politiche di deindustrializzazione che fecero esplodere la disoccupazione in Scozia, la Sturgeon ha avuto una carriera fulminante tutta nel Parlamento devoluto, reintrodotto in Scozia con la devoluzione promossa dai governi laburisti. Eletta nel primo parlamento nel 1999, diventa vice-leader del partito a 34 anni, vice-premier a 37 e premier a 44 anni.
Il suo discorso di dimissioni è stato tutto sommato onesto, ragionevole e molto umano. Ha sottolineato come un periodo così lungo ai vertici politici di un paese porta con sé anche un sacrificio personale significativo ed è umano fare un bilancio personale e familiare. Tanto più che come la Sturgeon certamente sa meglio di chiunque altro, sia il governo che l’opposizione a Westminster continueranno a negare un referendum sull’indipendenza scozzese ancora per molti anni ed è plausibile che la Sturgeon non abbia voglia di affrontare il logorante dibattito su come reagire al veto di Westminster, a maggior ragione dopo che la strada del referendum consultivo da lei perorata come unica alternativa legale, ha incontrato lo stop della Corte Suprema, lo scorso Novembre, precipitando la Scozia in una sorta di limbo costituzionale.
Non ha senz’altro aiutato lo scorso gennaio il fatto che il governo britannico abbia per la prima volta nella storia del Parlamento devoluto messo il veto su una legge, quella sul riconoscimento dei cambiamenti di genere, approvata dopo anni di dibattito e con una larga maggioranza parlamentare. Si trattava di una legge ritenuta controversa dalla destra radicale ed alcuni settori del femminismo cosiddetto terf che avevano iniziato nei giorni scorsi una polemica estremamente virulenta sul caso di una donna transgender che prima del cambiamento di sesso aveva commesso reati di violenza sessuale e che, indipendentemente dalla legge approvata dal parlamento, rischiava di finire in un carcere femminile. Una decisione locale piuttosto controversa fonte di polemiche velenose che la Sturgeon aveva comprensibilmente cercato di bloccare ma certamente nulla che potesse amareggiarla al punto da spingerla alle dimissioni, come ha del resto ribadito nella conferenza stampa convocata in fretta e furia questa mattina a Edinburgo.
Tutte le incognite sulla via dell’indipendenza
Di fatto le dimissioni sono molto più politiche di quanto non possano apparire ad una prima occhiata. Il limbo costituzionale in cui la Scozia continuerà ad essere costretta contro la sua volontà democratica rischiava di diventare anche un limbo personale per la Sturgeon, che aveva già realizzato l’obiettivo politico di portare il consenso al suo piano di indipendenza in Europa a livelli maggioritari (al 52% negli ultimissimi sondaggi). Così le sue dimissioni bloccano il logorio alla radice e energizzano il dibattito democratico scozzese sulla via da seguire a fronte del veto di Westminster. Il piano proposto dalla Sturgeon infatti, di puntare sulle prossime elezioni politiche del Regno Unito per ottenere un mandato ancora più forte per l’indipendenza, non scalda i cuori di nessuno, compreso il suo. La decisione di Sturgeon di dimettersi adesso è allora anche un tentativo di rendere il dibattito sul futuro del movimento per l’autodeterminazione scozzese più libero e democratico. In questo senso, associare la scelta sul nuovo piano di emancipazione nazionale a quella del nuovo leader può rafforzare entrambi, cosa che non sarebbe successa rimanendo la Sturgeon alla guida.
La Sturgeon ha inoltre sottolineato come la sua lunga leadership abbia finito per focalizzare attorno alla sua figura i fronti pro e contro indipendenza attorno ai quali si articola ormai da tre lustri la politica scozzese, col risultato di personalizzare impropriamente una questione costituzionale a scapito della qualità della discussione politica. La causa di una Scozia indipendente ed europea, ha ricordato, è e deve rimanere più grande di qualsiasi individuo.
Di sicuro, anche grazie a un’eredità che peserà sulle spalle del successore di Nicola Sturgeon, il supporto popolare al sogno di una Scozia indipendente ed europea è oggi più forte di quanto non lo sia mai stato.
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