I governi rigoristi sbagliano
se credono che l’Europa
tornerà come prima

Pace fatta? Ursula von der Leyen dopo le dure reazioni di Conte e Gualtieri, ha ritirato il suo “non possumus” alla creazione di titoli europei che in qualche modo comunitarizzino il debito per rispondere alla grave crisi provocata dal Coronavirus. Non è stata proprio una marcia indietro: la presidente della Commissione Ue ha detto che l’esecutivo di Bruxelles “guarderà ad ogni opzione ed utilizzerà tutto ciò che possa aiutare a superare questa crisi”, ma questa sua vaga assicurazione è bastata al governo italiano per chiudere l’incidente diplomatico aperto l’altro giorno dalle dichiarazioni all’agenzia tedesca DPA.

Scontro aperto

In realtà lo scontro è ancora aperto e rischia di arrivare come una mina pronta a esplodere all’Eurogruppo cui (in modo assai discutibile, come vedremo) sono state demandate le decisioni sugli strumenti anticrisi da adottare. Al fronte dei nove paesi che chiedono l’emissione di Eurobond o Coronabond o Covidbond (la fantasia delle definizioni non manca) se ne sono aggiunti altri cinque: Estonia, Lettonia, Lituania, Cipro e Malta.

commissione europeaL’arrivo delle tre repubbliche baltiche ha rotto lo schemino “paesi del Sud contro paesi del Nord”, ma non è l’unico stereotipo che se ne è andato, o che se ne andrà, in fumo in questa concitatissima e complicata fase del dibattito intorno al che fare dell’Unione europea di fronte alla più grave crisi che le sia mai capitata. Il grave contrasto che oppone i due fronti sembra riproporre lo schema paesi con debito forte contro paesi virtuosi che ha accompagnato la crisi dell’euro degli anni passati, con i primi a chiedere forme di comunitarizzazione del debito e i secondi a rifiutarle.

La divisione sembrerebbe la stessa, ma la situazione è del tutto diversa. Allora i due schieramenti si opponevano l’un l’altro all’interno dell’area dell’euro, la sorte del quale era la posta in gioco, e rispondevano a una logica tutta interna. A prescindere da chi avesse ragione e chi torto, la definizione degli interessi in gioco era chiara: i “paesi del nord” sostenevano di non aver alcun obbligo di assumersi quote di debito create dai “paesi del sud” per la loro mancanza di disciplina e di rigore. Era un atteggiamento molto discutibile, che portò alla stagione di guai dell’austerity, a cominciare dall’infame trattamento inflitto ai greci, ma aveva, per così dire, una sua qualche logica, ancorché perversa.

Una crisi comune

Richiamare oggi quelle posizioni, però, è una follia giacché la situazione è del tutto diversa: la crisi arriva da fuori e, come un’offensiva di guerra, colpisce tutti e tutti insieme i paesi europei, quelli più virtuosi e quelli più propensi alla Dolce Vita.

Le difficoltà create dalla catastrofe non sono attribuibili a inefficienze e colpe di questo o quello. E, aspetto fondamentale, non riguardano solo i paesi dell’Eurozona, ma tutti e 27 i paesi dell’Unione (compresa in parte la Gran Bretagna finché non sarà concluso il periodo di passaggio verso la Brexit). Tanto che non ci sarebbe da stupirsi se da Svezia, Danimarca, Croazia, Cechia, Ungheria, Polonia, Bulgaria e Romania dovessero arrivare nelle prossime ore proteste e diffide. Non si vede proprio perché decisioni che riguardano tutta l’Unione in un momento così delicato dovrebbero essere prese solo dai diciannove paesi che adottano l’euro.

L’atteggiamento assunto dalla Germania, dall’Austria e massimamente dai Paesi Bassi (mentre più sfumate apparirebbero le posizioni degli scandinavi e della Finlandia) appare ancorato invece ai criteri del passato. E, forse, a un calcolo assai meschino sul futuro, all’idea cioè che quando la crisi sarà passata sarà possibile chiudere la parentesi e ricominciare come prima.

La strada senza uscita del Mes

Si tratta di un’illusione perché è evidente che la stessa enormità delle risorse che dovranno essere messe in campo per fronteggiare questa crisi impedirà di ritornare alla situazione antecedente. Chi pensa che si possa manovrare agendo solo con il Meccanismo europeo di stabilità (MES) nella sua forma esistente, come è stato proposto a Berlino e come (forse) la stessa von der Leyen possa aver prospettato, si infila in un tunnel di problemi insolubili.

Intanto, il MES è finanziato direttamente dagli stati membri, per cui ci si troverebbe nella bizzarra situazione che sarebbero gli stati stessi a dover finanziare gli aiuti che ricevono. Per esempio, l’Italia, che contribuisce alla disponibilità del Fondo per 125 miliardi, per ottemperare agli obblighi che deriverebbero dal suo intervento dovrebbe spenderne altri 111. Per altri paesi che riceverebbero aiuti la situazione sarebbe simile, senza mettere nel conto gli enormi problemi politici che si determinerebbero con le obbligazioni imposte dalle prescrizioni del MES, a cominciare dalla famigerata troika.

Che lo vogliano o no Berlino, Vienna, Amsterdam e altre possibili cancellerie di un fronte del “rigore” non proprio del tutto definito, la soluzione sta da tutt’altra parte. La guerra alla crisi innescata dall’epidemia potrà essere combattuta soltanto ricorrendo alle risorse collettive dell’Unione. Con l’emissione di titoli di un gigantesco prestito europeo e/o con un aumento fortissimo del bilancio comunitario. Tutti i particolari su come arrivare a questo obiettivo – chi emetterà i titoli, chi li garantirà, se e come saranno esigibili, con quali risorse proprie verrà aumentato il bilancio UE e via elencando – dovrebbero essere oggetto di complicati negoziati tra gli stati e tra le istituzioni comunitarie.

L’Europa a rischio disgregazione

Un lavoro gigantesco da fare, anche se va detto che dei passi in questa direzione sono stati già compiuti, per esempio con la ripresa del quantitative easing da parte della BCE e dei primi, timidi, impegni presi dalla Commissione in fatto di interventi in aiuti diretti. Ma siamo solo all’inizio e si andrà avanti nella misura in cui sarà chiaro a tutti che alternative non ce ne sono. A meno che la voglia di sovranità degli stati, che ha già prodotto il pericolosissimo stallo dell’ultimo Consiglio europeo, non arrivi a sfasciare l’attuale assetto istituzionale dell’Unione.

Già si sente parlare della possibile “secessione” dei paesi favorevoli al prestito europeo, i quali potrebbero decidere di forzare gli eventi emettendo titoli comuni in proprio, una forma di Europa a due velocità molto sui generis. O, peggio (molto peggio) allo sfascio politico dall’interno dell’Unione, con i governi nazionali che metterebbero davvero in pratica la minaccia di procedere ognuno per conto proprio, magari facendosi concorrenza l’un l’altro sulle mascherine e sui respiratori.

Per fortuna, lo spirito pubblico europeo non sembrerebbe andare verso quegli esiti e arrivano anche segnali confortanti, come ad esempio la collaborazione a livello di istituti di ricerca o l’accoglienza negli ospedali tedeschi di malati italiani e francesi. Ma il rischio, non ce lo nascondiamo, c’è. E non aiuta certamente l’esasperazione che ha portato il nostro presidente del Consiglio a minacciare, tra gli applausi della destra, che se non si arriva a una soluzione nei prossimi giorni l’Italia “farà da sola”. Certe cose non si dovrebbero dire neppure per scherzo.