Parlar di Cesare
per non parlar
di Molinari
Nell’abituale editoriale della domenica (“messa cantata”, per gli addetti), Eugenio Scalfari ci narra del tempo di Cesare e della “Roma doma”. Bella e avvincente narrazione. Bisogna, però, avere la pazienza di arrivare al capoverso finale del lungo articolo per scoprire che il fondatore de la Repubblica parla di Cesare per non parlare di Molinari e del giornalismo d’oggi, praticato – ahi, lui – da molti suoi allievi e adepti. Scrive senza far sconto ad alcuno: “Ho confrontato in questi ultimi giorni il modo con il quale i nostri vari giornali (quelli più diffusi e autorevoli) titolano le loro prime pagine. Debbo dire che ne sono rimasto abbastanza stupito”.
Con precisione meticolosa cita poi uno dopo l’altro, i titoli che l’hanno stupito. A partire da quello de La Stampa, giornale che è diretto da Massimo Giannini il quale ha poppato giornalismo proprio da chi, ora, ne critica l’apertura che suona così: “Banchi, gel, mascherine, così la scuola può ripartire”. Poi ce n’è per il Corriere della Sera che, nello stesso giorno sempre in prima pagina, titola: ” Vacanze, il virus corre” e per il Messaggero con una variante sullo stesso tema” Un piano per zone rosse locali”. Come ultimo negativo esempio, Eugenio Scalfari porta il titolo scelto dalla testata di cui è padre fondatore, La Repubblica, diretta da Maurizio Molinari: “Scuola, le paure degli scienziati”.
Sempre Scalfari dice di aver esaminato non soltanto le prime pagine ma anche quelle successive (un’analisi di qualità e di quantità, direbbero i tecnici) scoprendo che sono “più o meno piuttosto conformi tra uno e l’altro giornale”.
Tante testate, stessa omologazione
E’ stato sempre così? Si chiede, preoccupato, il decano dei giornalisti. No, risponde a se stesso, non è stato sempre così. Forse lo fa in maniera auto-consolatoria. Ci fu un tempo, ricorda, in cui, ” i giornali intitolavano segnalando ciascun fatto politico, economico, di cronaca nera, di cronaca bianca, insomma, la vita dei cittadini, dei lettori, dei lavoratori, del popolo nella sua complessità sociale”. Se l’autorevole autore dell’articolo avesse sfogliato, con la stessa attenzione, i giornali durante il periodo più nefasto della lunga pandemia, avrebbe forse scoperto, un po’ prima, questa marcata tendenza all’omologazione sia nella scelta delle notizie da trattare, sia nei modelli di narrazione e , infine, nella titolazione. Tutto il sistema dei media ha messo in onda lo spettacolo del dolore. Parlo di sistema, non di singole firme o di testate perché ormai è il sistema nel suo complesso attraverso nuove logiche e nuove tecniche. Come quella degli algoritmi, a dettare l’agenda dei temi da trattare, rincorrendo l’impulso a seguire le orme non di ciò che deve esser narrato o detto ma di ciò che si presuppone il lettore voglia sentirsi o dire o leggere.

Eugenio Scalfari, come sorpreso, si chiede con onestà intellettuale, quale sia la natura di questo fenomeno che rende “i giornali pieni di monotonia“. La risposta che offre al lettore è da filosofo, non da conoscitore delle logiche che governano il giornalismo dei giorni nostri. Scrive:” Non è certo colpa dei giornalisti e tanto meno di chi li dirige. E’ la vita che è monotona: questa è la natura del problema”. Così si assolvono tutti i giornalisti: la colpa è del mondo che è brutto, sporco e cattivo. Più che altro conformista e noioso. Una risposta, giustappunto, conformista. Lui che ha fondato la Repubblica oggi dice che non vi è una responsabilità individuale del giornalista nel scegliere i temi da trattare, nel modo in cui trattarli, nel modo di titolare. Cioè non conterebbe più la singola firma e non la capacità di un direttore nello scegliere i temi da trattare. Siamo di fronte a un’assoluzione di massa per chi ha prodotto quei titoli. Questo giornalismo sarebbe il frutto (purtroppo, in parte, ma solo in parte, è vero) del venir meno della funzione del giornalista come mediatore sociale, come chi collocandosi tra la fonte delle notizie e il pubblico, si assume oggettive responsabilità di fronte ai lettori e all’opinione pubblica.
L’effetto marmellata
“Ora, in qualsiasi società che non sia talmente assorbita nei suoi interessi, né tanto piccola, che tutti siano in grado di sapere ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori dal campo visuale dell’individuo, e che per di più sono difficili da comprendere”: le persone entrano, quindi, in contatto con immagini simboliche; cioè con il fatto che è ricostruito dai giornalisti, con le loro parole scritte o dette e, sempre più, con le immagini somministrate. Lo scriveva, oltre un secolo fa, Walter Lippmann, che per primo parlò degli stereotipi, cioè di quelle formule ripetitive che servivano ai giornalisti per informare e che ormai, invece, sono divenuti il sinonimo della mancanza di autonomia di giudizio critico, sia nel mondo e sia nel giornalismo, provocando quell’infausto intreccio tra causa e effetto che produce una società omologata. E’ solo e davvero così?
Se solo il giornalismo volesse scrutare sotto la crosta, come solo alcuni fanno, troverebbe miniere mai sfruttate di notizie; troverebbe inchieste inedite da fare; troverebbe mondi da scoprire. E’ molto più comodo, però, starsene seduti al desk e prendere le notizie dal mare magnum della Rete o magari ricalcarle da altri media. Così si è creato quello che, già de decenni, chiamiamo “l’effetto marmellata”, con articoli uno identico all’altro, con una lingua impoverita e sempre più di plastica, così da piegarsi all’uso mediatico.
Informazione o intrattenimento?
In un importante lavoro di Umberto Eco degli anni Novanta, gli editori e i giornalisti troverebbero risposte che sono ancora utili proprio per spiegare alcuni dei fenomeni in atto. Scriveva, allora, il semiologo: “I quotidiani si settimanalizzano e per settimanalizzarsi aumentano le pagine, per aumentarle lottano per la pubblicità, per avere più pubblicità aumentano ulteriormente le pagine, e inventano i supplementi; per occupate tutte quelle pagine devono pur raccontare qualche cosa., per fare questo devono andare al di la della notizia secca ( già data peraltro dalla televisione) e quindi si settimanalizzano sempre di più, fino al punto di dover inventare la notizia o trasformare in notizia quel che notizia non è“. Questo Eco lo scriveva prima dell’avvento di Internet e del dominio dei social. “L’effetto marmellata” è cresciuto a dismisura. E si tratta, purtroppo, di una marmellata industriale, prodotta e smerciata dalla grande industria dell’intrattenimento della quale i media sono ormai una componente rilevante.
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