Samara, un’altra vita
perduta nell’indifferenza
dei potenti
Vite in fumo, ridotte in cenere dall’indifferenza della politica, che continua ad usarle per fare campagna elettorale o a lasciarle sole, nel gigantesco dimenticatoio che sta inghiottendo ogni istanza sociale e ogni riflesso di umanità in questo Paese. A Borgo Mezzanone, nello spazio aperto dello sconfinato Tavoliere pugliese, a due passi dalla città di Foggia, a 30 chilometri da Cerignola, il luogo natale di Giuseppe Di Vittorio, lo Stato si mescola col suo contrario. Intorno alle reti bucherellate di recinzione del Cara, il centro di accoglienza dei richiedenti asilo, sorge, scomposta, la baraccopoli di pezzi di legno, rifiuti e lamiera dove l’esercito di raccoglitori stranieri ha arrangiato, come ha potuto e con quello che ha trovato, una parvenza di centro abitato. Spesso i migranti transitano attraverso le maglie rotte di quella rete metallica. Un attraversamento coatto che diventa rito di passaggio anche per il loro status legale. Il giorno prima sono ospiti dello Stato nell’edificio di cemento, in attesa di una risposta; il giorno dopo, incassato un no alla richiesta di asilo, si spostano dall’altra parte del recinto e diventano carne da macello clandestina, schiavi di giorno, fantasmi nelle baracche di notte. È stato così anche perl’ultima vittima, un giovane gambiano di 26 anni.
La parte buona di questo Paese aveva appena finito di celebrarne il 74esimo anniversario della Liberazione, che Samara Saho, schiavo del sistema perverso sul quale le istituzioni tacciono, evidentemente a corto di coraggio e di soluzioni,è rimasto carbonizzato in seguito all’incendio della propria baracca. Per lui non c’è stata alcuna liberazione da questo fascismo economico e sociale. E sono i particolari della scena, ancora una volta, a raccontarci la povertà della sua e delle altre vite come la sua. L’innesco del rogo, una scintilla prodotta da un cortocircuito causato da un allaccio abusivo, spesso l’unico modo per avere corrente elettrica. Il combustibile, quei mucchi di vestiti usati, accumulati dal giovane per avviare un piccolo commercio, spesso l’unico modo di sbarcare il lunario. “Il gambiano – è la nuda cronaca dell’Ansa – è stato ritrovato steso a terra quasi completamente carbonizzato. La baracca era costituita prevalentemente da lamiere e legno”. L’immagine e la solitudine di questo corpo diventato cenere dovrebbe chiamarci tutti alle nostre responsabilità.
Prendendo a prestito le parole di Fabrizio De Andrè, “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”, potremmo dire che queste vite iniziano e finiscono sugli scaffali dei nostri supermercati e sui banchi dei nostri mercati, mescolate in quelle bottiglie di pomodoro vendute a pochi centesimi, nascoste e schiacciate da quella frutta e da quella verdura perennemente in saldo. Il costo stracciato del lavoro, che sarebbe più corretto definire sottocosto dello sfruttamento, resta il fortino nel quale i grandi produttori mettono al sicuro i propri margini di guadagno. Chiudendo gli occhi di fronte a un sistema piramidale che, alla base, lascia lavoro sporco e profitti alle mafie, da sempre trafficanti di uomini. Non è un caso che l’associazione Libera, con il suo coraggio e la sua lungimiranza,proprio sul foggiano aveva acceso i suoi riflettori portando in città la tradizionale marcia, in ricordo delle vittime di tutte le mafie, del 21 marzo di due anni fa.
Ce lo ha spiegato bene la Flai, il sindacato di settore della Cgil, che insieme a pochi altri, sindacati e associazioni, continua a lottare perché questo mondo cambi e continua a parlare di queste tragedie annunciate, come le chiama. E non c’è molto altro da dire.Perché prima di Samara, in una manciata di mesi, ne abbiamo pianti tanti altri, nel foggiano come a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, vittime dello stesso identico destino.“L’informazione è fondamentale – ci spiega Daniele Iacovelli, il segretario della Flai di Foggia –. Il consumatore deve sapere da dove arrivano i prodotti e come vengono raccolti. Un pomodoro, un’arancia, un ortaggio raccontano una storia che, nel caso della Capitanata, è quasi sempre una storia di sfruttamento”.
E proprio grazie alla Flai, al dialogo che con pazienza e tenacia la federazione ha saputo costruire con questi lavoratori-schiavi, superando le diffidenze, le reticenze, le paure di ritorsioni o di perdere quel poco che hanno –riuscendo persino a fare più di 1500 iscritti nei vari ghetti –, proprio grazie ai suoi sindacalisti di strada e alla loro guida, accompagnato da loro, ho avuto la possibilità di entrarci in questi luoghi e di visitarli.
Non chiamiamoli più non-luoghi, che c’è molta più vita e morte e sudore e fatica e disperazione e intraprendenza e, in una parola, umanità lì che nel centro delle nostre città. A colpirmi, in Calabria come in Puglia, sempre lo stesso stridente contrasto tra la cornice naturale di bellezza e campi coltivati e alberi da frutto e verde e azzurro del mare e quiete, e il quadro di povertà umana e materiale di queste sterrate disseminate di immondizia, in cui le abitazioni sono tende scolorite dal tempo e catapecchie di fortuna; i servizi igienici, quando ci sono,sono cabine di plastica incastonate nel fango. E le persone si vergognano di mostrarti la loro miseria, di parlarti, di spiegarti le loro vite, certi che non capirai mai.
E adesso? La Cgil, nella giornata simbolica del Prima Maggio, ha lanciato un sasso nello stagno della politica, avviando il percorso per l’apertura di una nuova Camera del Lavoro a Borgo Mezzanone, insieme alla Flai, per fornire accoglienza e tutela ai migranti e a tutti i lavoratori italiani e stranieri. Un luogo di solidarietà e attenzione che dedicherà a Samara Saho. Temiamo, tuttavia, ancora una volta, che resterà l’unica risposta concreta a una domanda di rispetto e di attenzione che da sempre resta sospesa. Come sempre è stato, i pezzi da novanta, politici e amministratori locali – alcuni dei quali costretti, malgrado i loro sforzi, al fallimento e alla irrilevanza – si incontreranno, costruiranno tavoli, alzeranno un po’ di polvere. Da Roma il “ministro dell’Inferno” cinguetterà i suoi beceri 280 caratteri tra l’immagine di una fetta di pane e Nutella e un bacione di Giuda. Ma dell’idea di trovare una soluzione, una volta per tutte, a questo scempio, una casa decente agli esseri umani che mandano avanti l’economia di questi luoghi, alimentandola con il loro sacrificio, ancora una volta, ci scommettiamo, non vi sarà traccia. In questo eterno penultimatumin cui chi potrebbe veramente fare qualcosa aspetta sempre il morto successivo per muoversi.
Giorgio Sbordoni, Radio Articolo1
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