Saman, un’altra vittima
della tolleranza
alla violenza sulle donne

Li abbiamo visti nel video, passare tranquilli con la pala per scavarle la fossa. E poi quelle frasi pronunciate da sua madre e riferite dalla stessa Saman al ragazzo che frequentava soprattutto via social, vista l’opposizione dei suoi. Volevano ucciderla e lei lo sapeva, lo temeva. Una sentenza emessa ed eseguita in famiglia, come è successo altre volte. Per salvare l’onore della famiglia, si dice. Perché aveva detto no.

Quelle verifiche fatte troppo tardi

Hina, Sana e ora Saman. Di lei non avremmo mai saputo nulla se non avesse denunciato il padre che rifiutava di consegnarle i documenti, il suo biglietto per la libertà. Solo per questo, e quasi due settimane dopo la sua denuncia, i carabinieri sono andati a verificare. E lei ormai non c’era più.

Fa orrore la premeditazione e sapere quanto Saman fosse sola nella sua famiglia, dove anche la madre parlava con la voce degli uomini. Fa orrore il padre che le aveva vietato di frequentare il liceo, che la teneva segregata, che la puniva lasciandola dormire in terra davanti a una porta chiusa: quella di casa sua. Fa orrore la paura che dettava l’omertà del fratello minore, che è riuscito a parlare solo una volta trasferito in un luogo protetto. Fa orrore lo zio-orco, che ammetteva di aver “fatto un buon lavoro” dopo averla uccisa. Fanno orrore anche le lacrime che ha versato, perché non ha saputo trovare un risposta diversa davanti a quella ragazza che aveva detto no. Alle nozze forzate, alla vita che la famiglia aveva deciso per lei. Fa orrore però anche il ritardo di chi avrebbe potuto forse evitarle la fine: sono passati 13 giorni dalla denuncia prima che qualcuno andasse a vedere che cosa diamine stesse succedendo nella casa dove Saman aveva paura.

Le tante Saman d’Italia

Quante Saman ci sono in Italia e di quante non abbiamo saputo è difficile dire. Non ci sono dati, ragazze immigrate – spesso solo bambine – escono con troppa facilità dai radar. Spariscono da scuola e nessuno le cerca più, anche grazie al mancato riconoscimento di diritti di cittadinanza. Si sa magari della loro esistenza, ma quasi nessuno varca la soglia della loro reclusione se non qualche associazione che cerca di fare da sponda alla loro voglia di vivere, di restare al mondo. Quante vengono rispedite nel paese d’origine per essere rieducate e costrette a nozze imposte? Non lo sappiamo, non c’è un monitoraggio. Il matrimonio forzato è diventato reato in Italia solo nel 2019 – e del resto abbiamo cancellato il delitto d’onore (un omicidio giustificato dal tradimento) e il matrimonio riparatore (nozze forzate con lo stupratore) solo nel 1981, istituti che a ben guardare non sono a distanze siderali dalla storia di Saman e delle altre.

Non abbiamo sensori per cogliere il pericolo ed evitare drammi, non tanti almeno da poterci concedere il lusso di sentirci esenti dal male che ha inghiottito Saman. Forse non abbiamo la cultura necessaria, altrimenti non continueremmo a contare – anche tra italiani doc dal pedigree impeccabile – tanti femminicidi: uno ogni tre giorni. Che poi sono quasi sempre storie di donne che hanno detto no: a relazioni non volute, mariti violenti, sfruttamento…

Diritti carenti in troppi paesi

Ma, Italia a parte, i dati sono carenti anche in Paesi che hanno prestato maggiore attenzione al fenomeno delle nozze forzate. Nel Regno Unito esiste la Forced Marriage Unit, creata nel 2005 per monitorare il problema e prestare aiuto: da allora ogni anno si contano tra i 1200 e i 1400 casi, ma si reputa siano solo la punta dell’iceberg. In Germania uno studio del 2008 aveva registrato 3.443 casi. Dati parziali che testimoniano l’esistenza di un fenomeno, la cui portata però continua a sfuggire. Eppure la Convenzione di Istanbul – quella di recente stracciata da Erdogan tra le rimostranze dell’Europa – all’articolo 11 prevede esplicitamente la raccolta di dati, oltre al sostegno alle donne vittime di violenza. E le nozze forzate sono palesemente una violenza.

Vittima della tolleranza alla violenza

Saman allora non è stata vittima solo della sua famiglia, che la pretendeva con il velo nero che le abbiamo visto nelle foto, così diversa dalla ragazza con i riccioli e il rossetto sulle labbra, che ha imparato in fretta l’italiano, che avrebbe voluto studiare e che voleva vivere, non sopravvivere. E’ stata vittima anche della tolleranza che si respira ancora intorno alla violenza sulle donne e che impedisce di cogliere l’urgenza di una denuncia e del non detto, doppiamente allarmante quando parliamo di donne immigrate strette, se non stritolate, tra mondi diversi. Saman è stata anche lei vittima di quello che si potrebbe fare e non si fa per liberare le donne – tutte – dal labirinto della violenza.

E allora va bene indignarsi e invocare oggi dagli immigrati il (sacrosanto) rispetto delle nostre leggi e della Costituzione ma non aiuta: è solo un modo per auto-assolversi e ridurre tutto all’arretratezza di culture lontane da cui ci illudiamo di essere del tutto immuni. Gli assassini di Saman sapevano bene che stavano violando la legge. Come loro tanti italianissimi bravi ragazzi e uomini esemplari assassini di donne che dicevano no: la Costituzione e il passaporto italiano non li hanno fermati.