Salvatore Veca, il filosofo che coniugava
libertà e democrazia alla sinistra

“Se Dio è morto, tutto è permesso?”. La domanda apre il primo capitolo di un vecchio libro, datato 1989, di Salvatore Veca, Etica e politica (pubblicato da Garzanti). Come si può pensare che Dio, “immortale, anzi eterno”, possa morire? Immaginiamo allora che si sia distratto, che abbia rivolto lo sguardo altrove, che se ne sia andato in un altro mondo. Immaginiamo: senza Dio ciascuno si può confezionare un’etica a proprio uso e consumo? Veca risponde: “La storia filosofica da cui siamo partiti, il congedo di Dio, ci ha suggerito almeno questo: che l’argomento base dell’etica ruota intorno all’idea di giustificazione razionale di regole che modellano la nostra condotta e informano ciò che dobbiamo fare nelle nostre vite (come dobbiamo vivere)”. Poche righe che intrecciano alcune parole, alcuni concetti, etica, regole, ragione, condotta (non compaiono termini come laico, laicità ma si intendono), che mi pare esprimano qualcosa di una filosofia, di una aspirazione ancor più, pure di una passione, qualcosa che ha ispirato, animato, guidato la ricerca di Salvatore Veca, intellettuale, professore universitario, protagonista della vita culturale italiana e soprattutto milanese, morto l’altra notte all’età di settantasette anni.

La carriera

A Milano Salvatore Veca, che era nato a Roma il 31 ottobre 1943, si era laureato in filosofia con Enzo Paci e Ludovico Geymonat. A Milano è vissuto, legando intensamente l’insegnamento alla consuetudine del dibattito pubblico. Chi ha avuto la fortuna di frequentare la Casa della Cultura, di cui ora era presidente, lo ricorderà relatore oppure, in sala, semplice spettatore, alto, magro, la giacca di tweed, le mani in tasca, sorridente e gentile. Era amatissimo dai suoi allievi e, allo stesso modo, da quanti avevano la fortuna di ascoltarlo. Era un intellettuale di sinistra, che il Pci ascoltava, cui il Pci si rivolgeva, un intellettuale che sapeva coniugare democrazia, giustizia, libertà e che indicava pazientemente questa via, democrazia, giustizia, libertà, alla sinistra, forte della convinzione che la ragione a questo dovesse condurre e che la lotta alle diseguaglianze ne fosse la conseguenza inevitabile, contro i pericoli di un ritorno ad una società castale, “una società – come scriveva in un recente articolo – dominata dal privilegio di qualcuno e non dall’interesse di chiunque, caratterizzata dalla crescente forbice delle disuguaglianze economiche e sociali e dal blocco della mobilità sociale, che erodono e rendono ipocrita la solenne promessa costituzionale della pari dignità delle persone, in quanto cittadine e cittadini, in quanto partner di eguale dignità della polis”.

A rileggere il curriculum vitae di Salvatore Veca, colpisce l’intensità del suo impegno. Professore universitario a Milano, poi in Calabria, a Firenze, a Pavia, docente a Cambridge e alla Sorbona, ha partecipato a tante imprese culturali, è stato direttore scientifico della Fondazione Feltrinelli (giovanissimo, aveva appena 31 anni), ha curato collane editoriali, ha scritto per quotidiani e riviste (anche per l’Unità), ha scritto moltissimi libri, ha avuto il merito di divulgare in Italia la conoscenza di filosofi come Rawls, Dahl, Nagel, Putnam, Berlin, Walzer, MacIntyre, Nozick, Dworkin e tanti altri. Salvatore Veca ne riconosceva i meriti e una questione sottolineava in particolare, dedotta dalla elaborazione di John Rawls, il filosofo di Baltimora, professore alla Harward University (fu Veca a indurre Feltrinelli a pubblicare il fondamentale “Una teoria della giustizia”, nel 1982, un decennio dopo la prima edizione originale): una riformulazione della giustizia come equità che rendesse coerente “la teoria normativa e i suoi principi di giustizia per l’assetto delle istituzioni di base della società con la questione del pluralismo come tratto persistente delle società democratiche”.

L’uguale rispetto

La bibliografia di Veca è irriducibile a una pagina di ricordo. Da Kant (Fondazione e modalità in Kant, il primo saggio pubblicato con il Saggiatore, nel 1969: aveva ventisei anni), a Marx (Marx e la critica dell’economia politica, Saggio sul programma scientifico di Marx, sempre con il Saggiatore), dalla ricerca nell’ambito della filosofia politica e dalle teorie sulla giustizia (La società giusta con il Saggiatore, Una filosofia pubblica e La priorità del male e l’offerta filosofica con Feltrinelli, L’altruismo e la morale per Garzanti insieme con Francesco Alberoni) alla riflessione sulla natura della libertà e sulle forme della vita democratica (Dizionario minimo. Per la convivenza democratica, per Frassinelli)… Molto altro.

In un testo di alcuni anni va (lo si può leggere per intero nel sito della Casa della Cultura di Milano) Veca si richiamava alle “politiche dell’uguale rispetto”, dipendenti dal riconoscimento dell’uguale importanza delle vite delle persone. Si riferiva ad Amartya Sen. Esemplificava: “Politiche che devono rispondere tanto ai funzionamenti delle persone, ai loro deficit, quanto alle capacità delle persone. Alle capacità delle persone di scegliere il loro progetto di vita, di scegliere chi essere. Le politiche dell’uguale rispetto mirano a ridurre le circostanze dell’umiliazione e della degradazione delle persone, le circostanze della coercizione arbitraria e tirannica, le circostanze dello sfruttamento e dell’uso di persone come arnesi, da parte di altre persone e in virtù dell’esercizio dispotico di poteri sociali, le circostanze in cui si erodono le basi sociali del rispetto di sé per le persone”. Analisi appassionata del nostro mondo “grande e terribile”, del nostro presente. Insieme perorazione di chi per una vita ha avuto nel cuore la giustizia: “come dobbiamo vivere”.
Alla notizia della sua morte molti hanno ricordato Salvatore Veca: il ministro Franceschini, il sindaco di Milano Sala, il presidente dell’Anpi Pagliarulo. Anche il presidente emerito Giorgio Napolitano lo ha ricordato, citandone la vicinanza “in una visione riformista della sinistra italiana e nello sforzo di rinnovarla”.