La flotta delle ong lancia un sos all’Europa
Bel tempo significa morire, nel Mediterraneo centrale: secondo le organizzazioni di soccorso sono già partite nelle ultime settimane dalla costa libica settecento persone. Il quaranta per cento è arrivato in Libia, l’undici in Italia, non si sa cosa sia accaduto agli altri. Sono millenovecentoquaranta i profughi giunti in Italia dall’inizio del 2019, trecentocinquanta le persone sicuramente morte. In assoluto gli annegamenti sono diminuiti rispetto al 2018, ma la proporzione tra sbarchi e dispersi è aumentata, secondo l’alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati.
Morire nel Mediterraneo
Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’agenzia ONU, ha detto domenica 9 giugno al The Guardian che “se non interverremo presto vi sarà un mare di sangue”. Delle dieci imbarcazioni di soccorso di organizzazioni non governative attive nel Mediterraneo solo una, la tedesca Sea Watch 3, è ancora in navigazione.
Tutte le altre unità della piccola flotta salvezza del Nord Europa sono state private della bandiera o sono sotto sequestro. Questo è accaduto a causa di una costante campagna di denigrazione personale contro volontari e coordinatori, nonostante le loro adamantine credenziali, e a causa di una serie di provvedimenti politici, amministrativi e giudiziari presi in buona parte delle autorità italiane.
Sos Mediterranee
Non è legale, non è umano: lo spiegano cinque video e un rapporto di SOS Mediterranee, fondata nel maggio 2015 dal capitano di navi mercantili Klaus Vogel, tedesco, padre di quattro figli, insignito dalla medaglia del Grand Vermail a Parigi, autore del libro “Sono tutti vivi” (“Tous son vivans”, edizioni Les Arénes, Parigi, 2017). Era la scritta sulla porta della sua casa di famiglia ad Amburgo dopo i bombardamenti, gli raccontò il padre.
Una frase bella da leggere, dice sempre Klaus Vogel, che ha salvato con la sola nave Aquarius 29.523 naufraghi. Per il ministro Salvini, su Facebook due settimane fa, “Questi non sono soccorritori ma scafisti, e come tali verranno trattati. Per i trafficanti di esseri umani i porti italiani sono e rimangono chiusi”.
In compenso si aprono i processi: Pia Klemp, trentacinque anni, biologa, capitana della nave di salvataggio Iuventa dell’organizzazione Jugend Rettet, fondata da tredici berlinesi tra i venti e i ventinove anni, sarà presto alla sbarra in Sicilia assieme ai membri dell’equipaggio. In un’intervista rilasciata la scorsa settimana al quotidiano svizzero Basler Zeitung la capitana Klemp, che ha salvato migliaia di persone, si dice consapevole di rischiare fino a vent’anni di condanna e alcune pesanti sanzioni. Si dovrà pagare da sola le spese legali.
Una petizione internazionale che chiede all’Italia di far cadere le accuse è stata appena lanciata e ha già raggiunto sessantamila firme. Pia Klemp afferma nell’intervista che “le missioni di salvataggio sono state criminalizzate da alcuni governi populisti” ma che questo è avvenuto nell’indifferenza dell’Unione Europea, che “non ricorda i suoi valori: i diritti umani, il diritto alla vita, all’asilo e il dovere dei naviganti di salvare chi è in pericolo in mare”.
La flotta della salvezza

SOS Mediterranee sviluppa ora il tema dell’erosione del diritto internazionale marittimo negli anni e interpella i nuovi eletti a Bruxelles perché ne ristabiliscano l’efficacia. Il 3 ottobre del 2013, dopo il naufragio di un’imbarcazione libica di trafficanti che causò trecentosessanta morti. Scatta l’operazione Mare Nostrum, uno sforzo militare e umanitario per salvare chiunque si trovi in pericolo nel Mediterraneo centrale. Mare Nostrum si basava sull’articolo 98 della convenzione ONU sulla legge del mare. Vengono salvati dall’annegamento 156.362 profughi, in oltre quattrocento missioni. Lo sforzo dura solo un anno: il 31 ottobre del 2014, a causa del mancato supporto dell’Unione Europea, Mare Nostrum viene rimpiazzata dall’operazione Frontex-Tritone, con la dichiarata intenzione di difendere i confini marittimi.
Nonostante manchino i soccorsi chi è disperato continua a fuggire. Migliaia di uomini, donne e bambini muoiono in mare ed è a questo punto che alcuni cittadini europei decidono di fare qualcosa. Nasce la flotta della salvezza, SOS Mediterranee e altre, con l’aiuto di Medici senza Frontiere. Si decide insomma che bisogna continuare a salvare chi fugge, portando questi naufraghi, come prevede la legge, in un luogo sicuro.
Andata e ritorno in Libia
Le cose peggiorano ulteriormente. Il 3 febbraio 2017 i capi di Stato europei si incontrano a Malta e firmano un accordo per addestrare, dare barche e finanziare la guardia costiera libica. Questo, secondo le dichiarazioni, dovrebbe creare una zona di salvataggio. Le barche di profughi vengono “intercettate” (è quasi sempre un breve giro per illudere chi cerca la salvezza) e riportate in Libia dove, come afferma l’Onu, i migranti si trovano di fronte a “torture, stupro e schiavitù oppure morte”.
Non è questo che la legge internazionale prevede, contestano le ONG: il salvataggio, per essere tale, deve condurre i salvati in un luogo sicuro che è definito come uno spazio in cui le possibilità di sopravvivere non siano minacciate, i bisogni umani siano soddisfatti e in cui si possano prendere in tempi rapidi decisioni sulla destinazione nell’Unione Europea.
La legge insomma non è stata rispettata, al punto che i porti italiani sono stati chiusi per giorni o settimane, nonostante l’obbligo di far sbarcare subito chi era in pericolo grave. Ora le ONG chiedono ai nuovi eletti al parlamento europeo cosa intendano fare: dire che non c’è il clima politico, il danaro o il coordinamento per salvare chi annega sarà un cedere alle intimidazioni, un voltare la testa dall’altra parte. Già fatto e già visto, nel secolo scorso.
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