Saba e la banalità del male: “Tutto mi portò via il fascista abbietto – anche la tomba”

Un anno di memoria in cambio di una sola giornata, questo è l’esito (tragico e necessario) di una ventiquattrore tremenda, raccontata in ottima parte da Furio Colombo in un articolo di soli pochi giorni fa, ma che ha dimostrato segnali inquietanti nei mondi che avrebbero dovuto proteggersi da una spirale di violenza inaudita e banale come negli scritti di Arendt, basati sulle vicende del gerarca nazista Adolf Eichmann.

Potremmo con estrema facilità e un minimo di populismo scagliarci verso lo studente della provincia campana (non si capisce perché alcune testate abbiano ritenuto necessario indicare plesso, età ed estrazione familiare, rendendolo riconoscibile ben oltre la gravità del gesto, ma in maniera totalmente gratuita se non per il gusto di “sbattere il mostro in prima pagina” – l’omonimo film di Marco Bellocchio del 1972 con protagonista Gian Maria Volonté è in questo senso profetico e da recuperare, fosse anche solo perché per le riprese fu utilizzata la sezione milanese del quotidiano L’Unità, – ) reo di avere laconicamente apostrofato in un tema le vittime della follia nazista, ma non è questo il punto.

Il Giorno della memoria non basta più a ricordare l’Olocausto

umberto saba
Umberto Saba

Il punto è che, come sottolineato dal Presidente della Repubblica, alle tante testimonianze di vicinanza alla tragedia di chi per religione, provenienza, colore della pelle, estrazione economica, identità sessuale ha dovuto subire e ancora subisce terribili soprusi, come in una sorta di macabra livella si sono levati alti i distinguo, le minacce, i solipsismi.

Come sempre una giornata per un tema fondamentale non è sufficiente e va costantemente ribadito e soprattutto ricontestualizzato. I social hanno accolto senza particolari sussulti paragoni generosamente definibili avventurosi tra le condizioni nei lager e quelle di chi ha dovuto subire negli anni della pandemia restrizioni di varia natura. Come se l’idea di essere deportati, seviziati, torturati o gasati vivi (perché di questo stiamo parlando) fosse paragonabile a quanto accaduto negli ultimi anni, al netto del personale pensiero di ognuno di noi sulla validità delle misure intraprese.

Una sola giornata non è in grado di costruire un pensiero comune, e certamente non nella frammentazione sociale a cui stiamo assistendo, dove modelli di felicità privata e non collettiva si stanno instradando, in una generale mancanza di visione politica che rende molto più difficile la tenuta complessiva della materia umana.

Ci potrebbero aiutare in questo senso i versi di un grande poeta del Novecento, Umberto Saba, nato a Trieste da una famiglia ebrea e che proprio per le sue origini fu costretto nel 1938 per la promulgazione delle leggi razziali a cedere al proprio commesso Carlo Cerne l’amata libreria ed emigrare in Francia con la famiglia. Saba che italiano in un certo senso “lo era diventato”, perché nel 1883, anno della nascita,

Trieste era ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico e chissà cosa sarebbe successo oggi col dibattito sulla cittadinanza, cavallo di battaglia di chi, oggi al Governo ha per un giorno dimenticato le proprie litanie su immigrati, stranieri e richiedenti asilo, esseri umani come chiunque altro e al di là di (mi ripeto) religione, provenienza, colore della pelle, estrazione economica, identità sessuale. E allora proponiamoci di dimenticare le giornate speciali e uniche all’interno dell’anno e di mettere al contrario ogni giorno del nostro calendario una parola come memoria, o ambiente, o magari poesia al centro della nostra agenda. Sarà forse dando le giuste priorità che saremo in grado di abbattere una certa retorica e ritornare a respirare un’aria più umana.

[…] Avevo una città bella tra i monti
rocciosi e il mare luminoso. Mia
perché vi nacqui, più che ‘altri mia
che la scoprivo fanciullo, ed adulto
per sempre a Italia la sposai col canto.
Vivere si doveva. Ed io per tanto
scelsi fra i mali il più degno: fu il piccolo
d’antichi libri raro negozietto.
Tutto mi portò via il fascista inetto
ed il tedesco lurco.

Avevo un cimitero ove mia madre
riposa, e i vecchi di mia madre. Bello
come un giardino; e quante volte in quello
mi rifugiavo col pensiero! Oscuri
esigli e lunghi, atre vicende, dubbio
quel giardino mi mostrano e quel letto.
Tutto mi portò via il fascista abbietto
– anche la tomba – ed il tedesco lurco.

Umberto Saba, Ultime cose (prefazione di Gianfranco Contini), Collana di Lugano 1944.
Successivamente in Oscar Mondadori 1976.