Rosarno, tutto cambia, ma lo sfruttamento resta uguale
Otto anni fa, i “fatti di Rosarno” portarono sotto gli occhi del mondo quel che avveniva da tempo nelle campagna calabresi – e pugliesi, e siciliane, e piemontesi, in Basilicata o nell’Agro pontino. Lo sfruttamento bestiale dei braccianti africani.
Otto anni dopo. dicono desolati gli animatori di Medu (Medici per i diritti umani) che da allora affiancano con le loro postazioni fisse o mobili i lavoratori, la situazione dello sfruttamento è la stessa, identica. Nonostante la legge contro il caporalato, nonostante i protocolli, gli intenti, le dichiarazioni.
Eppure qualcosa è cambiato. Nel 2008 la maggioranza dei lavoratori di Rosarno – e San Ferdinando, dove si ammassano le baraccopoli spontanee e le tendopoli ufficiali – parlavano veneto, o comunque italiano: molti erano stati appena espulsi dalle fabbrichette, erano sindacalizzati e ben orientati. Forse anche per quello l’intollerabilità della situazione li ha portati alla rivolta. Oggi la maggioranza invece ha il permesso di asilo (41%) o il permesso umanitario (45%), espulsi dal sistema di accoglienza appena ottenuto il permesso. Pochissimi parlano italiano (a dimostrazione delle pecche del sistema di accoglienza), quasi tutti ignorano i loro diritti, quasi nessuno sa orientarsi nella giungla burocratica dell’assistenza sanitaria, in Calabria ancora più deficitaria e farraginosa che al nord.
Insomma, il fallimento dell’accoglienza e i grandi affari nascosti dietro l’agricoltura e la sua commercializzazione.
Partiamo dal basso, dai braccianti. Medu ha stilato un documentato rapporto sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro irto di cifre. Più di un terzo dei lavoratori si rivolge ai caporali: il gap linguistico e della conoscenza dei luoghi e delle aziende – e l’assenza di qualsiasi mediazione pubblica – non lascia molte altre scelte. Raccolgono arance, mandarini, kiwi e olive per paghe bassissime. Molto al di sotto di quelle dovute per contratto. E i contratti, se pure ci sono, sono un pro forma, registrati solo dopo il controllo degli ispettori, comunque non rispettati.
Quelle che sono uguali, almeno per gli africani, sono le paghe, 25 euro a giornata meno i 3-5 euro del trasporto per il caporale, meno guanti e scarpe da lavoro. Nessuno sa se gli verranno versati i contributi, nessuno sa cosa sia la disoccupazione agricola, e certo non l’ha mai percepita. Se avessero una paga regolare per due anni, e 102 giorni lavorati dal terzo in poi avrebbero diritto a una sorta di cassa integrazione stagionale, poco meno di mille euro al mese. Che, spesso, invece tocca a ex braccianti italiani che nei campi non ci mettono piede, a cui gli agricoltori girano i contributi, dietro compenso o perché sono parenti. Una truffa, ma molto diffusa.
Ovvio che poi i braccianti cerchino soluzioni abitative informali, baracche nel peggiore dei casi, o brandine nelle tendopoli azzurre del Ministero degli interni. Che sia una fatica, e non solo il lavoro, lo testimonia Ousmane, mediatore culturale, che lì ha lavorato questo inverno. Intanto a San Ferdinando, dove sono le tendopoli e i ghetti, si arriva a piedi dopo una camminata di chilometri. Poi, una volta trovato un lavoro, “ti svegli alle 4 per poter stare nel campo alle 7, lavori incessantemente fino alle 16. Quando torni al campo, devi fare lunghissime file per prendere l’acqua potabile o fare una doccia. La vita, lì, è difficile: la gente ci va solo se non trova un’altra possibilità”.
Due le tendopoli “ufficiali”, una ma grande quella completamente informale. Più una fabbrica abbandonata, e i casolari diroccati attorno cui gemmano altre baracche. Spesso senza acqua, sempre senza luce. Altissimo il rischio di incendi, soprattutto d’inverno quando il freddo rigido – Medu ha riscontrato diversi principi di congelamento ai piedi – obbliga ad accendere fuochi. In un incendio è morta, nel gennaio scorso, Becky Moses. Una storia emblematica e agghiacciante la sua. Arriva in Italia, in due mesi ha il diniego all’asilo, arriva a San Ferdinando, destino prostituzione. Chi gli ha dato il diniego – dice accorato Antonello Mangano di Medu – non può non sapere che ad ogni no s’ingrassano i ghetti. “La gestione politica dell’immigrazione, che ha prodotto la persecuzione di chi fa solidarietà, in mare e non solo, produce effetti anche nelle campagne, offre schiavi ai padroncini, Che, non nascondiamocelo, sono ricattati dai prezzi della grande distribuzione, a sua volta ricattata dall’e-commerce. C’è sempre un pesce più grande che ti inghiotte, nel sistema globalizzato”.
Eppure cambiare si può. Se le paghe fossero regolari, non ci sarebbe bisogno di ghetti. Se ci fosse un’intermediazione – magari liste di prenotazione on line – tra padrone e bracciante il caporale sarebbe superfluo. Se ci fosse un trasporto pubblico, opportunità formative, i sindacati. Se ci fossero i controlli dell’ispettorato del lavoro… Invece da Foggia, altra zona di bracciantato e di lavoro nero, ieri è arrivata la notizia di arresti tra gli ispettori del lavoro, avvisavano le aziende prima dei conttrolli.
E poi ci sono i laccioli burocratici, la difficoltà di avere una residenza, i tempi della richiesta di asilo, i rinnovi del permesso di soggiorno che arrivano in tempi biblici.

In questa situazione di emarginazione e stigma, anche la presenza della clinica mobile di Medu è un sostegno, materiale medico e psicologico: “Quello che vogliamo fare – dice Jennifer Locatelli, autrice del rapporto – è certo dare un sostegno medico a persone che vivono in condizioni igieniche precarie e spesso soffrono le conseguenze dei lager in Libia. Ma soprattutto costruire relazioni umane, fiducia, sostegno reciproco. E non in una direzione soltanto: abbiamo imparato tanto dai nostri pazienti”.
Cambiare si può, ci sono anche i “buoni esempi”. C’è la cooperativa Sos Rosarno, impegnata sul lavoro pulito, sul biologico e su una distribuzione equa e solidale, C’è l’esempio di Drosi, comune di Rizziconi, che grazie alla Caritas ha organizzato un sistema di accoglienza diffuso per 150 persone, affitti calmierati in case lasciate vuote dagli emigrati. Quelli di buona volontà, quando si impegnano e guardano gli uomini che faticano accanto a loro, sono spesso più efficienti degli scribi e dei farisei, che agitano in campagna elettorale lo spauracchio dell’invasione, e ingrassano i ghetti dello sfruttamento nelle campagne d’Italia.
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