Ronchi: “Agire per il clima
senza sfavorire i poveri:
si può e si deve fare”
Se c’è, oggi in Italia, una personalità che meglio di tutte le altre può aiutarci a dipanare la matassa propagandistica che aggroviglia concetti come disuguaglianza sociale versus emergenze ambientali e che punta il dito verso i Paesi più poveri incolpandoli dell’inquinamento del pianeta, anzi, ancora di più, del surriscaldamento del pianeta, è Edo Ronchi, studioso di sviluppo sostenibile, già ministro dell’Ambiente nel primo governo Prodi, a cui abbiamo rivolto alcune domande.
Cosa pensi di questa tesi che si sta facendo largo tra i Paesi più ricchi e che è stata ufficializzata all’ultimo G7 Ambiente?
“C’è una responsabilità storica delle emissioni di gas serra accumulate in atmosfera (tempo medio di permanenza da 50 a 100 anni, dipende dagli assorbitori) che è senza alcun dubbio dei Paesi più ricchi e industrialmente progrediti (sostanzialmente quelli OCSE). Dall’altro canto c’è una fascia di Paesi più poveri e non avviati a processi di industrializzazione (africani soprattutto, alcune isole, ecc.) che hanno emesso pochissimo in passato e che emettono anche oggi quasi niente, ma che sono invece pesantemente esposti e colpiti dalla crisi climatica globale”.
Quindi non è esatto parlare di responsabilità comune?
“Parlare di responsabilità comune e di oneri differenti è cosa assai complessa specie se non si accetta l’ottica nazionalista, ma si parte dalla comune necessità di non andare oltre i 2°C con la consapevolezza che, superata tale soglia, vi sia l’alta probabilità di un peggioramento drastico per tutti. Detto questo sono convinto che le politiche e le misure climatiche debbano essere molto attente alle loro ricadute sociali, non solo per equità, ma per efficacia, altrimenti non passano, perché forniscono potenziali sostenitori ai negazionisti (ideologici ed economici). Non basta quindi dire che la crisi climatica colpisce di più i più poveri perché più vulnerabili e che i meno abbienti generano meno emissioni di gas serra, consumando meno risorse e meno energia. Occorre che le politiche climatiche puntino a generare anche più occupazione, un benessere di migliore qualità, ma anche più esteso e inclusivo. E questo è possibile anche se non è semplice.”
Intervenire, quindi, ma con quali priorità?
“Non è una questione di priorità. Non credo che si debba risolvere prima la disuguaglianza sociale e dopo la crisi climatica. Oggi, e almeno nel prossimo decennio, la crisi climatica sarà anche priorità sociale: se precipita, la povera gente la paga molto più cara. Non è quindi accettabile citare, almeno per me, ragioni sociali per rinviare ed evitare misure climatiche. Si possono e si devono, invece, adottare misure climatiche drastiche avendo cura di favorire, e non di aggravare, le condizioni degli ultimi”.
E allora, per rimettere un po’ d’ordine ci chiarisci la situazione attuale rispetto ad emissioni inquinanti e responsabilità?
“C’è una responsabilità attuale delle emissioni globali che continuano a crescere e che non calano come sarebbe necessario per non sfondare i 2°C al 2050 che fa capo principalmente alla Cina (attuale principale emettitore mondiale), agli Stati Uniti (secondo), all’Europa e ad un altro gruppo ristretto di Paesi. La Cina continua a considerarsi Paese in via di sviluppo, ma ha emissioni pro-capite ormai superiori a quelle europee e consuma da sola metà del carbone mondiale: deve ridurre le sue emissioni non solo relative all’unità di Pil, ma assolute e deve smetterla di puntare invece principalmente su alti tassi di crescita economica (oltre il 6% annuo). Gli USA di Trump, con scelte contrarie di molte città americane e alcuni Stati che invece sono impegnati nelle misure climatiche, contrastano l’Accordo di Parigi e le politiche climatiche, puntano su un rilancio del carbone, del petrolio e del gas. Le conseguenze pratiche di questa politica sembrano per ora limitate: nel 2018 in USA è aumentata la produzione di energia rinnovabile e quella fossile è rimasta stabile e le emissioni sono calate molto poco negli ultimi anni. L’Europa nel 2018 ha calato le emissioni, ma anche la produzione di energia rinnovabile è frenata nelle politiche climatiche dai sovranisti (Polonia e altri del centro est ) e anche da un rallentamento delle posizioni della Germania e dell’Italia. Così l’Europa stenta ad aggiornare i target al 2030 per riallinearli con Parigi. Da parte sua l’India che parte da emissioni pro-capite che sono meno della metà di quelle cinesi, le sta aumentando in modo significativo: avendo una popolazione di circa 1,2 miliardi che continua a crescere, ed anche se può godere di una certa flessibilità, se però arrivasse ai livelli europei o cinesi attuali di emissioni pro-capite, potrebbe alterare significativamente il budget globale disponibile che sarebbe superato, facendoci andare tutti oltre i 2°C”.
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