Roma periferia
in anima e corpo

Stanno misurando il Monte di Argilla. Uomini con stadie e teodoliti su treppiedi, che immagino elettronici & laserizzati, si aggirano su e giù per il canneto e la macchia rada del dirupo, tra le baracche e le immondizie relative dove più tardi arriveranno pure pecore e cani pastore. Questi sono animali grossi e bianchi e pelosi, molto responsabili. Gli uomini stanno riconducendo la conformazione del Monte distopico, anzi di ciò che ne resta dopo l’intensa erosione umana novecentesca, a una griglia numerica tridimensionale: ogni punto con le sue brave coordinate lungo gli assi XYZ a partire da una stazione di origine pre-fissata. Oppure no, fanno in altro modo, usano altri sistemi, più moderni. Quindi la trasformazione dei luoghi, attesa da almeno un ventennio, potrebbe verificarsi presto e tutto qui intorno non dico avrebbe senso, ma si completerebbe nel non-senso urbanistico del progetto che ho visto – il distretto del Governatorato distribuì dépliant casa per casa -, planimetrie e rendering prospettici, ove gente felice percorreva nuove piazze e stabilimenti commerciali e negozi e cinema multisala proprio a ridosso dell’era prossima ventura in cui non serviranno più le piazze e i negozi, perché tutto si comprerà in rete, gli alimentari nei super-mercati e non si andrà più al cinema, ma solo al bar, al ristorante messicano, si uscirà da casa solo per portare fuori il cane, o per correre, o per andare in palestra a dal medico o dal fisioterapista, già in tuta.

Non ho ancora una tuta intera. Devo comprarne una, ma non riesco a trovarne una di non pesantemente ricamate da un grosso logo della marca, della fabbrica, o con una cazzo di scritta senza senso. Vorrei una tuta anonima. Voglio sentirmi come gli altri, ma non troppo, non proprio in tutto. Cerco di moderare l’impulso gregario che è in me e quel curioso fenomeno per cui una cosa che sulle prime proprio ti repelle – mi accadde un tempo con i pantaloni a zampa di elefante – pian piano ti ci abitui, finché non ti piace e addirittura la esigi. Ma non mi è successo con la voga di portare abiti firmati o marchiati con enormi simboli, a testimoniare la qualità nel senso del “di marca”. Il Ceto Medio Esteso non si mette addosso cose che gli piacciono (niente gli piace/non piace), ma cose firmate/marchiate in modo “prestigioso”, cioè con loghi che godano di quella misteriosa stima di massa che per me è così difficile da capire.

Sono logiche di esibizione di quella che definirei come una giustezza stagionale di abbigliamento: se le giacche a vento – se ne vedono molte dalle parti della Montagna di Argilla, all’ingresso della metro, sull’altra sponda dello Stradone, anche se la temperatura non scende mai sotto i 10 gradi – quest’anno si portano con tubuli di imbottitura ben delineati e disposti orizzontalmente, tutti ne avranno addosso una, in genere di un non-colore come il bruno-putrefazione, il grigio-fango di palude, il beige-petto di pollo, e debitamente marchiata. Non riesco a farmi portatore di logo, ma così facendo mi escludo dalla comunità dei marchiati, che è immensa. Non troppo pesante, viste le temperature attuali che somigliano a una minestra diversamente riscaldata che dura tutto l’anno e gli anni che percolano uno nell’altro, come una melassa temporale che scorre sempre più veloce, e le improvvise tempeste, i periodi di piogge tiepide incessanti, le nevicate: rarissima, la neve fa gioia, quando cade sui canneti del Monte di Argilla e tutti noi della Palazzata ci riuniamo al Porcacci a discutere se attacca/non attacca e a bere una cosa calda perché “fa freddo”.

In primavera e a prima estate, lo Stradone è invece Territorio denso di giubbetti multitasche. Un tempo li portavano solo i cacciatori/pescatori, i fotografi di guerra e Joseph Beuys. Adesso ne esistono infiniti modelli. Si differenziano per una taschina in più o in meno, per una lampo al posto di un automatico, per la presenza di un tascone posteriore, che mai compresi a cosa potesse servire finché non mi accorsi che un tablet ci entra benissimo. Multitasche senza maniche, protettivo e utilitario allo stesso tempo, marchio identificativo di posizione sociale e di età della vita. Lo portano operai, artigiani, idraulici eccetera, insomma i tecnici che compaiono alla vista a ora di pranzo, anzi un po’ prima, perché il lavoratore comincia presto e mangia prima dell’impiegato e del pensionato, la sua giornata è sfalsata, i cantieri di ristrutturazione degli appartamenti cominciano alle sette e smettono alle cinque, il faber lavora con la luce del giorno.

Il multitasche lo portano loro e lo portano i pensionati della zona, a qualsiasi strato sociale appartengano – parlare di classi non ha senso, se non nella testa di chi, residuo fossile di un Novecento vissuto male, si crede in posizione elevata.
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Per terra, sul margine dello Stradone, accanto a una Porsche metallizzata nuova lucida di cera quasi a specchio, parcheggiata di sbieco metà sopra il marciapiedi, emanante concetti espliciti come denaro agio velocità nonché una certa arroganza, per terra, insomma sull’asfalto, vedo un fazzoletto di carta intriso di sangue con accanto la solita Peroni vuota.

Il fazzoletto intriso di sangue suggerisce che sia accaduto qualcosa, un’epistassi o un pugno sul naso di qualcuno o, peggio, un colpo di tosse con sprzzo di sangue. Il sangue per strada. Le gocce di sangue che si seccano sull’asfalto, le chiazze, le pozze addirittura. Sangue che zampilla dalla testa dei feriti da traffico sullo Stradone, vittime di incidenti di cui nei bar si parla per almeno due giorni, o anche di più, a seconda della gravità dell’evento. Il motociclista che giace immobile per terra in mezzo all’incrocio in attesa dell’ambulanza, i commenti suggerimenti raccomandazioni valutazioni degli astanti, l‘ambulanza che arriva, sollievo. Lo portano via, il traffico riprende. La moto di grossissima cilindrata resta lì, pettèra, presidiata da vigili urbani con capelli lunghi sul collo che chiacchierano e fumeno. Dopo un paio d’ore è scomparsa, ma il traffico sullo Stradone è ripreso quasi subito. I clacson premuti a distesa nel senso di Va bene che l’incidente è brutto, però anche sticazzi.

Ogni tanto sullo Stradone si leva l’urlo terrorizzante di un motore fuori dal comune. Si sente arrivare da lontano, l’effetto doppler ne alza la frequenza, Sembra emesso da un animale preistorico. E invece è un manzo sdraiato faccia avanti su una moto di quelle bestiali che gli si incastra alla perfezione tra le chiappe e si protende in avanti come un apparato sessuale meccanizzato, un cazzo-robot-trasformer momentaneamente nel sembiante di una moto. Lungo il tratto in salita, slargato di recente e privo di vetture parcheggiate, il tizio si scatena e in pochi secondi raggiunge almeno i130 km orari. Se il semaforo è verde e sgombro prosegue attraverso l’incrocio più o meno alla stessa velocità, se invece è rosso si ferma, ma non smette di sgasare. Ma se il giallo si è appena spento, accelera e passa lo stesso. La maggior parte delle volte se la cava. Ogni tanto no. Il mugghio ad alta frequenza di queste moto lanciate a velocità pazzesca fa bloccare sul posto l’anziano che torna a casa con la spesa: trasale spaventato, poi vede arrivare il motociclista, lo segue con lo sguardo, gode invidioso di quel rombo, di quel canto selvaggio di giovinezza incoscienza virilità, di quello sfrecciare a zig zag tra le automobili, inaudito e quasi criminale. E da un lato la sua mente si augura che si spiaccichi lì, all’istante, mentre l’altro lato resta in adorazione segreta di quell’evento tecno-feromonico, di cui percepisce con precisione l’inarrivabilità e che per un’istante gli marchia nel cervello l’ennesimo moto di rabbia-rimpianto per ciò che è stato e non sarà più. Per la moto che avrebbe potuto cavalcare, ma mai si è potuto permettere fino alla liquidazione, quando era troppo tardi perché su un mostro del genere non ce l’avrebbe fatta a starci, a governarlo senza farsi male. Il motociclista passa, è questione di pochi secondi, del tutto ignaro della tempesta psico-cognitiva che genera nei cervelli che in quel momento transitano sullo Stradone. Oppure no, ne è perfettamente consapevole.

Ho capito che le super-moto, e la Porsche parcheggiata a cazzo, sono esibizionismo sessuale sublimato in cavalli di potenza. Non importa se, com’è probabile, sei un povero coglione. Importa ciò che si vede. Ciò che si sente. Ma le cose possono anche stare diversamente: il gesto aristocratico di rischiare così tanto, solo per evitare la noia di frenare al semaforo, è supremo sprezzo coatto della vita: conta solo il segno che lasci nell’istante in cui lo lasci, conta lo stile immediato, lo svolazzo della firma che apponi su questo semaforo dello Stradone, nell’attimo in cui lo varchi a velocità assassina, nello sprezzo della tua e dell’altrui esistenza. Non c’è nessuno dei tuoi amici, nessuna ragazza ad ammirarti. È una cosa che fai per te. Non ti accorgi nemmeno che è una follia.
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Ormai lo Stradone, che per tanti motivi mi sembrava di odiare, che costringe tutti noi della Palazzata a tenere le finestre sbarrate per i gas e il rumore, mi pare di non odiarlo più. Ho cambiato tutti gli infissi di casa, non più quel bellissimo abete canadese obsoleto, con vetri singoli, ma telai di plastica a chiusura ermetica e vetri doppi isolanti, scelta necessaria per fermare le polveri sottili. Ho installato qualche climatizzatore ed è in questo modo, al settimo piano, solo, incapsulato & insonorizzato, che affronto le estati sempre più calde di questi anni Venti, devastate da temporali improvvisi violentissimi. Pochi minuti, ma sufficienti a ripulire l’asfalto fessurato di marciapiedi e manto stradale da tutti i rifiuti accumulatisi a partire dall’ultimo temporale, trascinandoli a valle e ammassandoli nei pressi della prima storica caditoia ostruita: so qual è: è giù, prima del Sottopasso. Lì si forma un lago profondo dove le automobili si divertono a mettere mezza ruota in velocità per fare altissimi schizzi e fracicare le pareti cementizie del manufatto, coperte dei manifesti fascisti dell’anno prima.

Osservo tutto questo con i miei para-occhi ideologici, dall’alto dei miei silenziosi rancori verso non si sa cosa, non si sa chi, ma quasi sicuramente innescati dal paesaggio sottostante che, come ho detto, non odio più. Sarebbe troppo semplice. Al posto dell’odio c’è una specie di disprezzo amoroso, come quando non riesci a staccarti da qualcuno che non stimi, ma a cui sei misteriosamente legato, qualcuno che in fondo ti rappresenta.

È così che lo Stradone, il Sottopasso e il Viadotto e il Nodo di Scambio, l’Altro Viadotto e la Ciminiera, il Canneto e tutto il resto alloggiano abusivamente nel mio cuore. Se qualcuno dovesse distruggere questo non-paesaggio immobile da decenni resterei come nudo & solo sullo Stradone a contemplare le Torri ex IACP all’imbocco della Sacca e il Monte qui davanti, che so, perché l’ho visto, essere fatto di argilla azzurra, coi suoi interessanti baraccamenti in crescita. Del resto, mi dico, se questi insediamenti devono essere nuova città spontanea, che siano: li sto studiando da anni col mio binocolo cinese: immagini non molto nitide, a essere sinceri, ma molto interessanti.

Tu, maschio bianco anziano con pancia e gilet multitasche, tu fratello, diglielo che vadano pure avanti per la loro strada, che trascinino il mondo dove vogliono, diglielo che noi restiamo qui seduti a guardia di ciò che è stato. Perché semplicemente siamo ciò che è stato, come loro sono ciò che è. E noi ciò che è non lo possiamo capire.

(Francesco Pecoraro, “Lo Stradone”, 2019)