Non basta dire no
alla Raggi
per salvare Roma
Strisciarossa mi chiede di portare sul sito un contributo alla discussione su Roma in prossimità della campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale. Lo faccio con piacere anche perché con Pietro Spataro collaborai nel 2015 alla pubblicazione di Roma. Capitale senza capitale, un libro-intervista, il testo forse più riuscito tra i diversi da me pubblicati negli ultimi anni sui temi di città.
Lo faccio benché da qualche giorno abbia deciso di ridurre drasticamente la mia partecipazione al dibattito su Roma per motivi che dirò più avanti.
Basta tatticismi
La prima cosa da dire è che ci avviciniamo ad una campagna elettorale importante in un clima stanco e culturalmente grigio. Nonostante la città reclami una mobilitazione straordinaria di energie e di idee, prevalgono le banalità e il già detto. Le nostre orecchie sono invase dal ronzio del silenzio o delle frasi fatte. Politica, informazione e società civile sono compartecipi di questa bonaccia. È il segno ulteriore di un esaurimento. Non c’è più nulla da dire.
O meglio, se non si esce dal recinto dello stato attuale della Capitale, del tessuto ormai privato di ogni linfa (amministrativa, valoriale, economica) di “questa Capitale” ogni discorso non può che suonare come vuota retorica.
Roma vive una crisi sistemica che coinvolge in modo organico il sistema urbano. Ed anche per questo assistiamo ad una fuga delle classi dirigenti dall’impegno su Roma. Nessuno vuole rischiare di restare impigliato nel pantano. Il “civismo” senza il lievito della politica, scade in comitatismo episodico e sporadico.
La Raggi, in tutto questo, ha persino il coraggio di ripresentarsi ed il Pd, che dichiara la sua contrarietà ad appoggiarla (ci mancherebbe) sembra comunque in imbarazzo, visto che al contempo insegue un rapporto organico coi Cinque Stelle e spera in un loro appoggio al ballottaggio.
C’è il rischio di involtolarsi in discorsi segnati da un tatticismo incomprensibile e di perdere di vista la necessità della nitidezza di una visione che è presupposto di ogni sana condotta anche tattica. Visione che, certo, non può essere improvvisata volontaristicamente in quattro e quattr’otto, ma va impostata per gradi in un lavoro di sedimentazione delle idee, in un confronto.
La crisi della sinistra romana
La crisi sistemica che Roma attraversa ha tratti generali. Riguarda la rivoluzione urbana in atto nel mondo occidentale e
capitalistico che sta mutando le forme comunitarie, i tempi di vita e di lavoro, gli spostamenti che conformano la vita delle città, da oltre un decennio e che con il Covid hanno subito una feroce accelerazione. Ma a Roma la crisi ha anche tratti specifici che sono legati alla decadenza della sua condizione di Capitale nazionale dal 2008 in poi e che ci si è rifiutati di riconoscere nonostante i segnali fossero chiari da tempo.
Nemmeno la ricorrenza del 150enario di Roma Capitale ha generato una riflessione seria su questo, confermando la decadenza della stessa vita culturale romana. In questa situazione la sinistra è stata colpita in modo duro politicamente e anche moralmente e fatica a risollevarsi dal torpore e dal trauma politico e organizzativo subito con le sconfitte elettorali, la caduta di Marino, il correntismo interno, alcuni scandali.
Lo dico con brutalità forse eccessiva, ma la verità va presa amara come una medicina. E Strisciarossa è il luogo migliore per rinunciare alla diplomazia. La crisi della sinistra romana non è superata nonostante apprezzabili tentativi di ripartenza non siano mancati e nonostante risultati elettorali recenti che segnalano una ripresa (ma solo al Centro).
Le radici delle esperienze di governo più durature sono state essiccate anche da assurde discussioni autolesioniste che, senza rielaborare criticamente eredità e innovazioni hanno rinvigorito spesso e volentieri, per stupidi istinti di lotta interna, gli argomenti distruttivi del populismo e della demagogia.
Per cui oggi riprendere il filo di un discorso serio che ricostruisca criticamente e proficuamente il senso del flusso di una storia appare arduo e meriterebbe un lavoro di lunga lena. Esiste tuttavia un grande spazio di iniziativa politica e di innovazione che può partire da Roma ed estendersi a livello nazionale, se la sinistra e i democratici volessero percorrerlo. Roma può essere uno straordinario laboratorio per una politica di sviluppo sostenibile e di innovazione di quelle politiche urbane e territoriali che sono il cuore del Green New Deal.
Le risorse di Roma
Roma è la città più verde d’Europa. Dispone, ad esempio, di uno straordinario patrimonio idrico naturale (sappiamo che l’acqua è la base di un progetto di sostenibilità e di civiltà umana che stabilisce altre relazioni tra sviluppo e ambiente). L’acqua ha fatto grande Roma e può tornare ad essere una grande carta economica e industriale nel mondo attuale. Ma è anche una risorsa che rischia di entrare in crisi a Roma.
Roma è una città con enormi risorse per la ricerca pubblica e per l’innovazione tecnologica ai fini di nuove sperimentazioni digitali, della lotta alle emissioni e della ricerca applicata a nuove fonti di energia e sappiamo che oggi l’ambientalismo deve avere un forte carattere scientifico e tecnologico e non può essere solo narrazione.
Roma è una città a rischio dal punto di vista idrogeologico e che richiede politiche e investimenti mirati; è una metropoli che può sperimentare politiche di recupero e rigenerazione urbana dopo che col Prg si è bloccato il consumo di suolo, segnando dei limiti non più valicabili.
Un sindaco “costituente”…
Potrei continuare ma per brevità rimando, per questa parte del mio discorso, ad un lungo articolo su Huffington Post dei giorni scorsi. Ma per fare sistema e immaginare una nuova prospettiva in questo senso, occorre una riforma istituzionale che dia a Roma i poteri di una istituzione regionale (programmazione e indirizzo di grandi politiche metropolitane e di rete). Una riforma urgente da lanciare anche con un referendum popolare. Senza questa netta svolta ogni discorso sul futuro di Roma si riduce a sterile retorica.
Un nuovo Sindaco deve porsi alla testa di un movimento costituente per la riforma dell’ordinamento di Roma Capitale attraverso una modifica costituzionale. E nel frattempo ottenere, ad ordinamento vigente, dal Governo nazionale le migliori e più vantaggiose condizioni finanziarie per far ripartire Roma, il che significa più risorse per gli investimenti e meno pressione fiscale legata al ripiano del debito pregresso. A queste condizioni, Roma può ripartire con una prospettiva generale mobilitante e con un’azione politica immediata su obbiettivi ravvicinati. Virginia Raggi, nonostante il grande consenso di cui ha goduto, non è stata capace di ottenere queste due semplici e chiare cose. Non ha avuto né forza né autorevolezza per farlo.
Ma occorre anche un nuovo schema politico. Può essere, questo schema, un accordo con la Raggi al secondo turno? Mi domando se per convincere la maggioranza dei romani possa bastare (e se, in caso di vittoria, possa funzionare) una politica che si basa su una discriminante antifascista e basta. Infatti non escludo affatto (anche se nutro forti dubbi) che uno schema di apparentamenti al ballottaggio tra Pd e Cinque Stelle possa determinare un successo elettorale. La circostanza potrebbe essere favorita da un disimpegno evidente della destra. Ma potrebbe anche limitare notevolmente l’apporto di tante forze dentro uno schema di alleanza partitica, fotocopia di una situazione nazionale.
…e affidabile
Mi domando perciò se non occorra, in primo luogo, un nostro profilo che punti ad avere la maggioranza di consensi su una linea chiara. Credo che la proposta politica dei democratici debba essere sintonizzata sul termine di “affidabilità”. Questa è la vera chiave che i romani vogliono percepire. Ed è la chiave vera per battere la destra che, per quanto appaia oggi disimpegnata, è in grado di esprimere figure sperimentate nel lavoro amministrativo e quindi a loro modo percepite come “affidabili”.
Insomma non basta dire: non appoggeremo mai la Raggi. Ma bisogna partire da una nostra proposta che si rivolga “a tutti i romani” i quali premieranno il candidato più affidabile. Se la proposta sarà forte non sarà difficile avere il massimo consenso anche tra gli elettori che al primo turno avessero votato Raggi e tra una parte di quelli più distanti dal perimetro della sinistra ma liberi e mobili nei loro orientamenti, i quali guardano la persona prima delle idee.
Dobbiamo partire dalla proposta e legarla a una persona parlando direttamente con tutti i romani e senza restare troppo, più del necessario, intrappolati nello schema degli apparentamenti e delle camicie di forza nazionali, dalle quali peraltro, nei momenti cruciali, Roma ha sempre dimostrato di saper prescindere e di stare più avanti, innovando schemi e condizioni politiche.
Occorre uno schema di riformismo civico: una grande alleanza senza simboli di partito con un Sindaco o una Sindaca politicamente forte e capace di tenere insieme le anime di uno schieramento necessariamente ampio e con forti caratteri civici che avrà bisogno di una spina dorsale programmatica e di una forte guida.
Il Pd si rinnovi
Roma potrebbe essere l’occasione per sperimentare anche una nuova fase dello stesso Pd. Con una lista dei Democratici. Aperta e lontana dai bilancini di corrente. Embrione di una costituente per un nuovo soggetto politico aperto che derivi dal Pd innovandolo radicalmente ma senza tradirne i valori. Quella costituente che lo stesso segretario ha più volte indicato recentemente e che io stesso da anni segnalo come necessaria per coltivare un partito davvero rinnovato.
Infine, debbo offrire una notazione personale. Ho detto e ripeto qui che non mi candiderò alle primarie perché l’ho già fatto nel 2016 in circostanze assai particolari. Vi era infatti un candidato calato direttamente dall’allora segretario del Pd e capo del governo. Tutto il gruppo dirigente e i maggiori esponenti delle correnti e del governo si schierarono per ovvi motivi con lui. Furono primarie per modo di dire.
Perché non parteciperò alle primarie
Quindi non vi prenderò parte per la seconda volta. Peraltro, l’ipotesi di una mia candidatura non esiste anche perché mai il gruppo dirigente me l’ha prefigurata e da mesi batte altre piste.
Essendo io, pur sempre, un dirigente nazionale del Pd, prendo atto di un indirizzo che fino ad oggi mi è parso chiaro nella ricerca di una figura di grande visibilità che potesse, in virtù di questa caratteristica, farci evitare le primarie. Ricerca per ora non proficua ma ancora in atto e che mi auguro possa giungere a buon termine.
Aggiungo di essere cosciente dell’immenso impegno di vita che questo comporterebbe e guardo a questa remota possibilità, che pur tuttavia migliaia di cittadini e compagni considerano come naturale, con la piena coscienza dei miei limiti e delle mie energie fisiche, minori di un tempo. Per fortuna, vedo che in ogni caso avanzano ipotesi e energie che si sentono invece in grado di affrontare questa sfida e questo è un bene. Ma segnalo sempre di non considerare il Campidoglio un palcoscenico ma un luogo di lavoro quasi monastico che richiama più il senso di una missione che di una ribalta. Non credo di dire cose distanti dal vero. È molto importante l’approccio del nuovo inquilino o inquilina del Campidoglio.
Per quanto riguarda le primarie ritengo poi che, senza un precedente lavoro di sintesi programmatica comune, rischiano solo di esser un alibi.
Ma penso positivo. Resterò comunque attivo, libero e critico sul dibattito romano. Come mi impone il mandato elettorale, come è doveroso verso la comunità che rappresento e come ho sempre fatto senza mai cercare ruoli o partecipare ad una gestione di potere locale.
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