Roma ’60, i Giochi del disgelo
Lo sport e la festa dopo la repressione

Sono passati sessant’anni da quando, nello stadio Olimpico di Roma, un giovane con occhiali scuri e canottiera azzurra tagliò il traguardo vincendo l’oro nella prestigiosa gara dei 200 metri piani. Quel giovane era Livio Berruti, primo europeo a vincere in questa gara e stabilendo il record del mondo .

Le Olimpiadi romane

Quei giochi regalarono gloria nella boxe a Nino Benvenuti e a un peso massimo che saltellava sul ring leggero come una libellula, un nero di diciotto anni, Cassius Clay. La velocista Wilma Rudolph si aggiudicò tre ori e fu soprannominata dalla stampa europea la “Gazzella nera” per esaltare la velocità, la grazia e la bellezza della sua corsa. E come dimenticare Abebe Bikila correre a piedi nudi sul selciato di Roma, all’imbrunire tra due ali di folla festante, per andare a vincere la maratona?
L’Italia salì sul podio più alto anche nell’ippica, grazie all’oro dell’ufficiale dei carabinieri Raimondo D’Inzeo. Per lui quella vittoria fu una specie di riscatto, dopo i brutti fatti che lo avevano visto protagonista un mese prima, sempre a Roma ma a porta San Paolo.
Come spesso accade lo sport diventa una specie di anestetico ai problemi sociali, come era avvenuto nel 1948, quando la vittoria di Gino Bartali al Tour de France contribuì a calmare le fibrillazioni nel Paese dopo l’attentato a Togliatti.

Dodici anni dopo, nel 1960, il Paese si trovava in pieno miracolo economico, ma il benessere nascondeva profonde lacerazioni socio-politiche. Nell’ambito di una fase di cambiamento della società e della politica, nella Dc si aprì una lotta interna tra chi voleva un’apertura al Psi e chi la rigettava con ogni mezzo. In febbraio il Partito liberale, diretto da Giovanni Malagodi, aveva tolto l’appoggio al governo di Antonio Segni, che, di conseguenza, si era dimesso. Si era aperta allora una crisi lunghissima e ricca di mutamenti di fronte: prima un “incarico esplorativo” al presidente della Camera Giovanni Leone, poi, dopo la rinuncia di questi e il rifiuto di Attilio Piccioni, l’incarico era stato nuovamente affidato a Segni, il quale, vista l’impossibilità, per l’opposizione di una parte della Dc, di formare un governo che si reggesse sull’astensione dei socialisti, aveva rinunciato.
Il 26 marzo Gronchi aveva affidato contro ogni aspettativa l’incarico a un fanfaniano suo amico, Fernando Tambroni.

Un governo traballante

Il Ministero presieduto da Tambroni aveva ottenuto in aprile la fiducia della Camera col voto determinante del Msi e dei monarchici. Si aprì così uno dei periodi più oscuri e pericolosi dalla nascita della Repubblica. Furono settimane caldissime. Ripercorriamone la cronaca.

Dopo il voto alla Camera, la direzione della DC sconfessa l’operato del gruppo parlamentare, e tre ministri (Sullo, Bo e Pastore) si dimettono. Restano: Antonio Segni (agli Esteri) e Paolo Emilio Taviani, oltre all’immancabile Giulio Andreotti, a Oscar Luigi Scalfaro e anche esponenti della sinistra Dc come Benigno Zaccagnini.
Il segretario del Pci Palmiro Togliatti dirà: “Tutto ciò che è avvenuto rende più preoccupante il pericolo di destra e quello dell’avventura di carattere poliziesco”
Si tratta di un governo traballante che si regge in piedi solo grazie a un pugno di voti fascisti. Le proteste salgono e la rabbia delle piazze viene ulteriormente fomentata da forme di repressione durissime.
Le manifestazioni sono sempre più cariche di tensione: da una parte dimostranti che reclamano i loro legittimi diritti sociali e, dall’altro, il governo Tambroni che dà carta bianca al ministero dell’Interno per soffocare ogni protesta popolare. Non a caso pochi mesi dopo il neo-nominato ministro Scelba mette nero su bianco, in un’intervista prima e in una circolare poi, la legittimazione dell’uso delle armi da parte delle Forze di Polizia in funzioni di ordine pubblico.
Tambroni dà mano libera ai prefetti e si deve sapere che, come scrive Paolo Nori nel volume ” Noi farem vendetta “, dei 64 prefetti di prima classe che erano in carica nel 1960 in tutta Italia 62 erano stati funzionari del ministero degli interni fascista. C’erano poi 64 prefetti ordinari: provenivano tutti dai ranghi della burocrazia fascista. E anche i 241 viceprefetti erano tutti, nessuno escluso, ex funzionari dei governi fascisti.”

La scintilla

Nel giugno di quell’anno il MSI annuncia che il suo congresso nazionale si terrà a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, e che a presiederlo sarà l’ex prefetto repubblichino Emanuele Basile, responsabile della deportazione degli antifascisti nei lager e nelle fabbriche tedesche.

A quel punto, Genova insorge.

Il 30 giugno i lavoratori portuali, i camalli, risalgono dal porto alla testa di decine di migliaia di genovesi, in massima parte giovani antifascisti. Alcuni portano nello scontro di piazza contro la polizia una pratica di violenza che poi ritroveremo in maniera ancor più massiccia nei conflitti di piazza a partire dalla fine degli anni ’60.
La polizia tenta di sciogliere la manifestazione con metodi molto duri: ci sono scontri, feriti, arresti. I manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono barricate e di fatto si impadroniscono della città costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell’ordine. Il prefetto di Genova è costretto ad annullare il congresso fascista.
Le violenze dilagano anche in altre parti d’Italia: Il 5 luglio la polizia spara a Licata e uccide Vincenzo Napoli, di 25 anni, ferendo gravemente altri ventiquattro manifestanti.

Gli scontri a Roma

6 luglio a Roma, Porta San Paolo. E’ convocata una manifestazione, ma la sera prima il prefetto ne vieta lo svolgimento. Ma la mobilitazione popolare il giorno dopo porta in pazza un gran numero di manifestanti. In testa al corteo i militanti del Pci, quelli socialisti, iscritti all’Anpi, antifascisti romani in gran numero. Fianco a fianco i parlamentari della sinistra recano una corona d’alloro con il nastro tricolore da deporre sulla lapide di Porta S. Paolo per ricordare i soldati e i civili italiani caduti nella resistenza alle truppe naziste l’8 settembre del 1943.
Porta San Paolo è accerchiata da agenti  di polizia della Celere e carabinieri, in mezzo ci sono migliaia di giovani di Testaccio. Non appena i deputati si avvicinano alla lapide per deporvi la corona di fiori, lo schieramento di polizia si apre per fare spazio ad uno squadrone di carabinieri a cavallo guidati da Raimondo D’Inzeo. La cavalleria carica la testa del corteo, su cui si rovescia il getto di acqua colorata degli idranti, partono i lacrimogeni .

Sono scene di violenza selvaggia. Un odore acre prende alla gola. Fumo dappertutto. Moltissima gente che urla e si muove sbandando. Sirene, suono di trombe. Le camionette della celere iniziano a caricare con estrema violenza. Caricano e malmenano tutti. Sassi, fumo, lacrimogeni … e colpi d’arma da fuoco.
La folla si disperde per i giardinetti dietro l’ufficio postale Ostiense, per le scale tra le case verso S. Saba e per le vie del vicino quartiere di Testaccio. Si scatena una vera e propria guerriglia urbana: i manifestanti si difendono dalle cariche gettando sulla polizia tutti gli oggetti che riescono a trovare. Si difendono dalla cavalleria accendendo le sigarette e portandole sotto la pancia dei cavalli per disarcionare i cavalieri oppure buttando biglie sotto gli zoccoli dei quadrupedi.
Ai manifestanti va la solidarietà dei residenti dell’Ostiense e di Testaccio, soprattutto quando, col sopraggiungere della sera, nelle vie e nei portoni dello storico rione si scatena una vera e propria caccia all’uomo. Le forze dell’ordine infatti hanno iniziato i rastrellamenti nelle case. Chiunque venga trovato sui portoni o nei cortili, viene pestato e dichiarato in arresto.

Pietro Ingrao e il parlamentare socialista Gian Guido Borghese, vengono feriti dalle manganellate e subito portati alla Camera: entrano sanguinanti in aula. Fuori si continua a combattere, ma in piccoli gruppi. A sera inoltrata torna la calma ma il bilancio è pesantissimo: almeno duecento i fermati, altrettanti i feriti per entrambe le parti. Un poliziotto di trentuno anni, Antonio Sarappa, morirà due mesi dopo per le ferite riportate.

La strage di Reggio Emilia

Il 7 luglio, a Reggio Emilia, durante una manifestazione sindacale la polizia spara e uccide: Afro Tondelli operaio di 35 anni, Lauro Farioli, 22 anni, Marino Serri, 41 anni partigiano della 76° Brigata, Ovidio Franchi un ragazzo operaio di 19 anni, Emilio Reverberi 39 anni, operaio, che era stato licenziato perché comunista nel ’51 dalle Officine Meccaniche Reggiane.
A Palermo la polizia carica e uccide Francesco Vella, 42 anni, mastro muratore e organizzatore delle leghe edili, che stava soccorrendo un ragazzo di 16 anni, Giuseppe Malleo apprendista edile, militante della gioventù comunista.

Il 19 luglio il governo Tambroni è costretto a dimettersi. L’incarico torna a Fanfani; si costitusce un governo monocolore democristiano, che ottiene la fiducia grazie al voto favorevole di Dc, Psdi, Pri e Pli e all’astensione di socialisti e monarchici. Votano contro comunisti e Msi: Aldo Moro lo definì il “governo delle convergenze parallele”.