“Rimettere Di Vittorio al suo posto”:
Trentin e lo smarrimento della sinistra
È in uscita, a cura di Ilaria Romeo ed Andrea Ranieri un secondo volume dei diari di Bruno Trentin (“Bruno Trentin e l’eclissi della sinistra”, Castelvecchi editore). Il primo, curato dallo scomparso Iginio Ariemma, riguardava il periodo che aveva visto Trentin come segretario generale della Cgil. Questo secondo volume copre il periodo che va dal 1995 al 2006, l’anno della sua scomparsa. Pubblichiamo qui due brani.
14 febbraio 1996
Quanto tempo è trascorso e quanta riluttanza a riprendere questi appunti! Ancora adesso mi sforzo senza convinzione a riprendere il filo di un discorso interrotto.
Forse questa afasia è dovuta al precipitare di uno stato di depressione acuta, di sconforto e di impotenza, determinato da una situazione politica sempre più torbida nella quale la sinistra o quello che ne rimane, ha registrato un distacco radicale – mi sembra senza precedenti – dalle tensioni del paese reale.
Il fatto che oggi il grande accordo fra D’Alema e Berlusconi che aveva distrutto Prodi e frammentato l’Ulivo sia giunto al capolinea con la rinuncia di Maccanico e il profilarsi delle elezioni – assolutamente il minor male a questo punto – forse ridarà un po’ di ossigeno ad una riflessione strategica nei vari pezzi della sinistra, ma non cancella i guasti compiuti, le ferite devastanti che si sono aperte e le macerie che si sono ammonticchiate. Si tratta infatti, soprattutto di rotture culturali ed etiche, le quali una volta compiute possono innestare, anche al di là di momentanei fallimenti, dei processi di degrado irreversibili alla lunga – se non vengono appunto aggredite alla radice, ricostruendo le basi e le ragioni della politica e della sinistra. E questa è una questione di lunga leva perché si tratta di fare i conti non con questa o quella persona ma con la deriva di interi gruppi dirigenti, con un processo quasi strutturale di decomposizione ri-composizione delle élite, anche sociali, che la crisi del Pci e la scomparsa del Psi hanno lasciato in eredità al popolo di sinistra, anch’esso esposto ormai, senza alcun antidoto a tutte le temperie dell’estremismo verbale e opportunistico, del trasformismo, del cinismo della governabilità scambiata per etica della responsabilità, dell’avventurismo populista.
3 agosto 2006
[…] Di Vittorio ha rappresentato con la sua concezione dell’autonomia del sindacato, come soggetto politico, un punto fermo di ogni ricerca di una strada progettuale, propositiva, ove proposte, progetti e azione politica di massa si confondevano ed erano legate da un nesso inscindibile, capace di verificar sempre la validità e l’attualità di ogni scelta politica, ben al di là di un consenso passivo sui confronti dei capi. Si veda quante volte la Cgil ha saputo assumersi l’onere di una autocritica […].
Di Vittorio è stato il grande dirigente politico e non solo il grande sindacalista che ha iniziato a rompere questo schema ideologico. Non solo per motivi razionali ma appunto per la sua percezione politica di una società civile in continua trasformazione che rendeva ineluttabile un’iniziativa politica del sindacato: le riforme, i diritti, le libertà, l’ampliamento della sfera della rappresentanza anche ai disoccupati e alle forme anomale e frantumate che segnano una trasformazione e insieme una personalizzazione del rapporto di lavoro.
Relegarlo nella sfera dei capipopolo, dei buoni oratori, del bracciante che si è costruito con accanimento una sua cultura, del mediatore sempre saggio e scusarlo per le sue sbandate, ignorando la sua statura di riformatore che si affermò di fronte al paese, 15-20 anni prima della scoperta da parte del Pci del fallimento del socialismo reale e prima che si succedessero i cambiamenti di nome di fronte alla catastrofe, continuando a manifestare e tradurre in termini di progetto, la vocazione riformista dei nuovi dirigenti della sinistra.
Per un rinnovamento democratico (veramente democratico) delle forze socialiste prima di tutto, occorre quindi anche combattere questa mummificazione di Di Vittorio e contrastare la deriva della cultura politica e sociale italiana che tendono non a caso a congelare una separazione concettuale fra la lotta sociale e la “vera politica”.
8 agosto 2006
[…] Riconsiderare la storia della Cgil di Di Vittorio dal 1945 ad oggi sotto un nuovo punto di vista, quella della ricostruzione faticosa e contrastata di un sindacalismo non corporativo e di un sindacato che si prospetta come un soggetto politico non subordinato ai partiti ma capace di dialogare con loro in ragione della sua autonomia politica e culturale, riconoscere l’autonomia dei processi unitari nel sindacato ma anche la portata che questi processi possono avere per lo sviluppo dell’Italia repubblicana e la difesa creativa della nostra Costituzione. Questo vuol dire rimettere Giuseppe Di Vittorio al suo posto nella storia politica e sociale del nostro paese.
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