Rileggere Marx per comprendere
le radici dell’antisemitismo moderno

Vecchi fantasmi ritornano. La destra in parlamento trova disdicevole la proposta di Liliana Segre. Il vecchio campione olandese di calcio, come il docente dell’università senese, si dichiara attratto da miti deliranti del nazismo. Dinanzi a questi spettri non si può che ripetere, una volta ancora, “perché non possiamo non dirci marxisti”. Tra le tradizioni politiche europee nessuna ha superato il test dell’universalismo, o di un umanesimo integrale, quanto quella di ispirazione socialista.

In uno scritto intitolato Über den Antisemitismus (in Marx-Engels, Werke, band 22, Berlin, 1977, p. 49-50) Engels raffigura l’antisemitismo come un odioso malanno che prolifera su basi di massa solo in paesi arretrati (Prussia, Austria, Russia) ma che sarebbe “semplicemente deriso in Inghilterra e in America”. Si tratta di forme spudoratamente regressive proprie di credenze ancestrali scaturite dal risentimento della piccola nobiltà decadente che vive di prestiti, dalle angustie della piccola borghesia incapace di arrivare “al punto di vista moderno”. Solo lo sviluppo del grande capitale (“non importa se ariano, ebreo, cristiano, circonciso o battezzato”) ha effetti costruttivi nelle mentalità collettive perché “annichilisce” le credenze reazionarie di queste classi che insorgono contro le invidiate fortune degli ebrei (la ricchezza di Rothschild è un nulla rispetto al grande capitale americano).

La grande contraddizione

Nel moderno l’unica differenza politicizzabile è per Marx quella che affiora tra capitale e lavoro, ed è proprio per occultare la “grande contraddizione” che, con la fabbrica dei miti aperta in ogni tempo dalle destre xenofobe, sorgono devianti contese identitarie su base etnico-sacrale. Secondo Engels solo dove il capitale è assai debole, e l’economia è in stagnazione, sorge l’odio razziale capace di fare proseliti tra i ceti più poveri con le maschere di un socialismo arcaico e nazionalista. Da questo punto di vista “quindi l’antisemitismo non è altro che una reazione degli strati secondari medievali della società contro la società moderna, che consiste essenzialmente di capitalisti e lavoratori salariati, e quindi serve solo scopi reazionari sotto una solo apparenza socialista”. Il lessico socialisteggiante è peculiare nelle ondate reazionarie delle destre radicali che osano rubare simboli sociali per mobilitare le periferie, i perdenti delle modernizzazioni.

Engels ritiene che l’antisemitismo, come movimento di massa,  sia “una variante del socialismo feudale e non possiamo avere nulla a che fare con esso. L’antisemitismo falsifica l’intera situazione. Non conosce nemmeno gli ebrei che disprezza. Altrimenti avrebbe saputo che qui in Inghilterra e in America, grazie agli antisemiti dell’Europa orientale, e in Turchia, grazie all’inquisizione spagnola, ci sono migliaia e migliaia di proletari ebrei. Questi lavoratori ebrei sono i più sfruttati e i più ignoranti. Abbiamo avuto tre scioperi di lavoratori ebrei qui in Inghilterra negli ultimi dodici mesi, e qui dovremmo fare antisemitismo come lotta contro il capitale? Inoltre, dobbiamo troppo agli ebrei. Tacendo su Heine e Börne bisogna ricordare che Marx era di sangue ebraico; Lassalle era ebreo. Molte delle nostre persone migliori sono ebrei. Il mio amico Victor Adler, in prigione a Vienna, Eduard Bernstein, Paul Singer della cui amicizia sono orgoglioso, e tutto il resto ebrei!”.

Il Memoriale dell’Olocausto a Berlino

Miti del sangue e della terra

Nei suoi scritti Marx stigmatizza a più riprese l’antisemitismo che non sbuca come un fungo nel ‘900. Il fenomeno affiora nelle piazze della vecchia Europa e Marx denuncia l’allegria viennese con cui “i nostri prodi buontemponi anticiparono le loro imprese future con un repentino assalto contro i poveri israeliti. Sfasciarono alcune vetrine, picchiarono alcuni ebrei, a molti tagliarono la barba, e un poveretto fu addirittura buttato dentro un barile di catrame. La gente che passava tranquillamente per via veniva apostrofata con la domanda: Sei ebreo? e chi rispondeva di sì veniva duramente picchiato al grido di Macht nichts, der Jud wird geprugelt (via, botte al giudeo)” (Marx, Opere, vol. XVI, cit., p. 332, 1859). In nome delle libertà laiche Marx rigetta “l’esaltazione di questi buontemponi viennesi” (XVI, p. 332) così come respinge le assurde idee di de Gobinneau. Nei suoi libri Sur l’Inégalité des races humaines, si afferma la tesi per cui “la race blanche è una specie di divinità tra le altre razze umane”. Rileva Marx che “il suo odio verso la race noire, per gente di questo tipo è sempre fonte di soddisfazione avere qualcuno che, a loro parere, esse hanno il diritto di disprezzare” (Opere, vol. XLIII, p. 710).

Da quando in Europa non si parla più di “classi”, e non si organizzano momenti di conflitto sociale per decidere l’innovazione, neanche l’uguaglianza, riferita alla comune appartenenza al genere, è politicamente pensabile. In un mondo che è rivolto così minacciosamente all’indietro, il vuoto lasciato dalla grande politica è riempito dalla ideologia di una destra trionfante che scopre le inimicizie ancestrali incardinate sui miti del sangue e della terra.