Ricordando le Feste dell’Unità, una grande stagione di democrazia

La notizia della strage precipitò sulla giornata d’apertura della festa nazionale de l’Unità poco dopo le 21.15 di venerdì 3 settembre. Allo spazio dibattiti si ricordavano Pio La Torre e Rosario Di Salvo, trucidati a Palermo pochi mesi prima dai killer di Cosa nostra, nel pieno della mobilitazione per la pace e contro i missili a Comiso. “Mentre Macaluso parlava, Natta, visibilmente trafelato, gli passò un biglietto in cui lo avvertiva che poco prima era stato assassinato dalla mafia il generale Dalla Chiesa. Macaluso si fermò, sotto choc, e la platea comprese in silenzio che era avvenuto qualcosa di grave, poi lesse il biglietto con la notizia”. Paolo Fontanelli, insieme con Franco Marmugi, ha scritto di quei momenti in Tirrenia 1982. Un racconto della Festa (MdS Editore, 2022) il libro che rievoca quarant’anni dopo uno dei grandi appuntamenti estivi che segnano la memoria condivisa di generazioni diverse che si riconobbero nel Pci. Sindaco di Pisa tra dal 1998 al 2008, deputato del Pd fino al 2018, Fontanelli era il giovane responsabile della zona Pci della Valdera quando gli venne affidata la responsabilità di sovraintendere alla costruzione della festa. Tirrenia 1982 ci propone aneddoti, emozioni, fotografie e documenti che rimandano a quei giorni, offrendo nel contempo uno spaccato del ruolo che ebbero gli appuntamenti con la stampa comunista negli ultimi decenni del secolo scorso.

Molti gli avvenimenti drammatici di quel 1982. Il 30 aprile l’omicidio La Torre, il 18 giugno quello di Guido Calvi, la strage palermitana di Via Carini agli inizi di settembre. Il 16 di quello stesso mese, infine, il massacro nei campi palestinesi di Sabra e Shatila. “La politica italiana galleggiava sulla instabilità con il governo pentapartito presieduto da Spadolini – ricorda  Fontanelli – e lo scenario di quel periodo vedeva una conflittualità costante tra la Dc e il Psi”. Il Pci di Berlinguer puntava “a costruire l’alternativa al pentapartito”, ma il barometro del rapporto con i socialisti annunciava tempesta.  Durante il comizio che concluse Tirrenia ’82, Berlinguer si soffermò a lungo sulle vicende che caratterizzavano quei mesi. Ancor più che nei decenni precedenti e in quelli successivi, gli interventi del segretario del Pci, che concludevano le feste nazionali settembrine alla presenza di grandi platee di militanti confluiti da tutta Italia, consacravano l’avvio del nuovo anno politico. Nella cittadella de l’Unità costruita sul litorale pisano, a ridosso del Parco di San Rossore, il 17 settembre si contarono cinquecentomila presenze. “Tirrenia, la più grande città della Toscana”, titolava in quei giorni il quotidiano l’Unità.

Un appuntamento per tutti

Le feste del giornale comunista erano entrate a far parte da anni della tradizione democratica del Paese. Non più solo appuntamenti dei comunisti per i comunisti, ma luoghi aperti di confronto politico e culturale che coinvolgevano anche chi non votava ancora o non avrebbe mai votato per il Pci. Occasioni di svago e di incontro, certo. Ma il programma stesso della “grande scampagnata per l’Unità” organizzata nel 1945 a Mariano Comense, non si limitava alle danze e alle tavolate. Da allora – dalla prima edizione organizzata all’indomani della Liberazione sull’esempio di quelle francesi de L’Humanité – le feste si rinnovarono profondamente e crebbero di numero, anno dopo anno. La loro immagine mutò radicalmente fino ai moderni tendoni e alle tensostrutture che affiancarono o sostituirono ferro e legno. A livello nazionale, ma anche locale, si diffuse la consuetudine di programmare quei momenti di aggregazione popolare in parchi, ville, luoghi simbolici di realtà grandi e piccole del Paese che vennero resi fruibili dopo decenni d’abbandono e d’incuria.

Emblematica la ristrutturazione della Mostra d’Oltremare in occasione della festa organizzata a Napoli nel 1976. Ed emblematico, sei anni dopo, l’appuntamento di Tirrenia. Ad aprile, quando la direzione del Pci propose alla federazione di Pisa di ospitare l’edizione del 1982, ricorda Fontanelli, si decise di “chiedere la disponibilità degli ex stabilimenti cinematografici della Cosmopolitan abbandonati da anni”. La verifica del primo sopralluogo mostrò tuttavia “strutture malmesse fino al limite dell’agibilità, spazi esterni invasi da sterpaglie”, assenza dei servizi essenziali. Furono la “determinazione” e il “coraggio” del segretario provinciale di allora, Luciano Ghelli, a far gettare ai comunisti pisani il cuore oltre l’ostacolo. Si fece “appello agli iscritti per una grande mobilitazione” e si programmò il primo giorno per avviare il lavoro di ripulitura degli spazi. L’8 maggio, così, si presentarono a Tirrenia più di trecento volontari, numeri che aumentarono fino a moltiplicarsi grazie ai tanti che misero a disposizioni le proprie ferie per creare dal nulla strade, servizi igienici, condutture per l’acqua o il gas o la corrente elettrica o la rete telefonica, stand, cucine e, infine, la grande area centrale per i concerti e la manifestazione conclusiva. Quattro mesi dopo l’inizio dei lavori, i ventotto ettari degli ex studi cinematografici Pisorno – inaugurati nel 1934 e abbandonati negli anni Sessanta – avevano cambiato volto.

Legami forti

Il libro di Fontanelli rimanda al Pci di quegli anni, alla forza dei suoi quadri periferici e alla loro capacità di intessere legami forti con la realtà in cui operavano, alla credibilità di cui godevano i vertici del partito e il segretario nazionale, alla passione e alla dedizione dei tesserati. Sono i militanti comunisti, in realtà, i veri protagonisti del volume, e l’esempio pisano ripropone ciò che avveniva anche nel resto del Paese. Fontanelli ne descrive impegno volontario e generosità, ingredienti che si ritrovano nelle feste di oggi, le stesse che riflettono, tuttavia, la crisi che investe la sinistra. La  passione che spingeva allora migliaia di volontari a trasformarsi una volta l’anno in “falegnami, elettricisti, idraulici e muratori” era frutto non solo dei valori e degli ideali che li motivavano, ma dei meccanismi di partecipazione democratica che regolavano la vita del Pci e che consentivano a ciascuno di sentirsi giorno dopo giorno, e per tutto l’anno, parte attiva di una comunità politica che sollecitava contributi di idee, di elaborazione, di iniziativa ad ogni iscritto. La consapevolezza di poter influire collettivamente sulle decisioni che riguardavano il proprio territorio e di poter incidere sulle scelte nazionali per rafforzarle o modificarle motivavano e cementavano adesione e militanza.

La lotta politica c’era e spesso era durissima, ma le differenti opinioni sulle scelte quotidiane e sulle prospettive politiche non si cristallizzavano in correnti di potere che zavorravano la democrazia interna. Maggioranze e minoranze si formavano attorno ai problemi concreti o alla linea del partito, al di là delle assonanze che si creavano con le posizioni di questo o quel dirigente nazionale, “più a destra” o “più a sinistra” che fosse. Il confronto politico serrato che si sviluppava consentiva di formare quadri e gruppi dirigenti allenati all’ascolto che, peraltro, dovevano superare l’esame continuo delle assemblee di base e dei congressi. Certo, quei meccanismi di partecipazione, che permettevano un controllo democratico diffuso, mostravano limiti e difetti, personalismi e carrierismi a volte potevano sfuggire alle maglie delle regole comuni, lo stesso centralismo democratico che regolava la vita del partito poteva non far emergere con la necessaria trasparenza le opinioni diverse e quelle, in particolare, che non risultavano prevalenti. Ma la differenza dai partiti personali dei nostri giorni era radicale. E c’è da sorridere, sfogliando oggi gli stessi giornali che presentavano quel Pci un po’ come “partito-chiesa” e un po’ come una “caserma”, leggere articoli e commenti che rimproverano alla sinistra – al Pd innanzitutto – di aver allentato le maglie di quelle regole antiche e condivise che avrebbero impedito l’insorgere ai nostri giorni di vicende scandalose come il Qatar gate e il caso Soumahoro.

Passione civile

ll libro di Fontanelli ha il merito di far riflettere sulla passione civile e sulla tensione morale che animava militanti e dirigenti comunisti, figlie della fiducia che si riponeva in una comunità politica che godeva  all’esterno, e anche tra chi non vi aderiva,  della credibilità necessaria per tenere accesa la speranza di una società più giusta e per darle concretezza.

E non si tratta di riproporre oggi modelli del passato, facendo prevalere la nostalgia sulla ragione. Si tratta, negli anni venti di questo secolo, di individuare strumenti credibili capaci di rimotivare passione, partecipazione e senso di appartenenza. Ed è lecito chiedersi, mentre è in corso la campagna congressuale del Pd, se la ricerca di una scelta di campo che ricollochi la sinistra dalla parte degli strati più indifesi della società non debba dare maggiore rilievo alla riflessione sul partito e sul suo modo di essere, alla costruzione cioè di una moderna organizzazione che superi il cortocircuito che ha interrotto per anni lo scambio tra centro e periferia, tra base e vertici e, in definitiva, tra gruppi dirigenti e società. Trovare nuove connessioni tra valori e ideali in cui molti continuano a identificarsi e un soggetto politico che risulti credibile per realizzarli – anche perché inclusivo, capace di sollecitare il protagonismo della sua gente e di allenarsi all’ascolto del mondo che lo circonda – è indispensabile per superare rassegnazione e apatia che sfociano nell’astensionismo o nelle scorciatoie populiste. Per rinverdire, in definitiva, la speranza che una società migliore, più democratica, solidale e tollerante, possa affermarsi costruendo da subito l’alternativa credibile ad una destra che mostra le sue pulsioni autoritarie puntando a sfregiare la stessa Costituzione repubblicana.

“Tirrenia 1982. Un racconto della Festa”, di Paolo Fontanelli e Franco Marmugi, edizioni MdS