Report e il caso
Lega-Mosca: quella voglia
di censura che torna

Dove andremo a finire? Domanda magari da vecchio fustigatore della moralità pubblica e, ai tempi, delle minigonne. Ma se si guarda un attimo non troppo distratti e rassegnati a quanto accade a proposito del sistema dei media in Italia, tra quel mondo e la politica, tra quel mondo e l’economia, tra quel mondo e la cultura… la domanda non è poi così banalmente retorica. Dove andremo a finire? Forse senza giornali, probabilmente senza giornalisti, autocensurati prima che censurati e licenziati.

Lo penso e lo temo considerando le difficoltà di oggi e tanti episodi di un ventennio e l’ultimo di qualche giorno fa, quando nel consiglio d’amministrazione della Rai, alcuni, il consigliere della Lega e quello di Fdi, si sono scatenati contro una inchiesta di Report, che indugiava sugli affari russi della Lega e su alcuni personaggi della nota vicenda petrolifera, da Salvini e Savoini (più che conosciuto da chiunque abbia frequentato per lavoro giornalistico o per altro gli ambienti leghisti e in particolare la sede di via Bellerio) ad avvocati non certo di chiara fama, a mediatori, intrallazzatori, alla consueta corte di mestieranti in queste faccende. I consiglieri suddetti invocavano la par condicio, in ragione della vicina scadenza elettorale in Umbria. In modo improprio, perché mica di Umbria raccontava la puntata di Report, ma se mai di petrolio tra Mosca e l’Italia e in aggiunta delle simpatie naziste di Savoini e per la destra estrema del leader Salvini, sottolineando gli ottimi rapporti tra i due, Savoini e Salvini, nulla di nuovo sotto il sole viste le rispettive esperienze e la rispettiva formazione tra la stampa e la radio del Carroccio all’epoca di Bossi.

Peraltro, Sigfrido Ranucci, il direttore di Report, ha più volte dichiarato di aver invitato qualcuno della Lega e in particolare Salvini in trasmissione per controbattere quanto i servizi mostravano. Nessuno avrebbe risposto. Del resto si sa che Salvini, ex ministro degli interni e senatore, non vuol sentire di soldi russi: pazienza che non ne parli in televisione, ma al Senato della Repubblica qualcosa avrebbe dovuto spiegare. Come si ricorderà aveva lasciato l’ingrato compito al Conte1.

Denunciando la censura, qualcuno s’è rifatto al celeberrimo editto bulgaro, quando Berlusconi in visita ufficiale a Sofia, davanti ad una platea di duecento giornalisti, denunciò l’uso criminoso della televisione da parte di Enzo Biagi e di Michele Santoro e del comico Daniele Luttazzi. De Biasio (consigliere in quota Lega) e Rossi (in quota Fdi) non valgono ovviamente Berlusconi e, per ora, Report potrà continuare per la sua strada. Ma l’attacco è , come è stato da varie parti scritto, un “tentativo di bavaglio”, un’intimidazione che vale per Ranucci, ma non solo per Ranucci, malgrado l’amministratore delegato Salini abbia rassicurato: “La difesa dell’informazione è sempre un valore sacrosanto”. La “schiena dritta” (mi rifaccio all’appello dell’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi) non è un valore per tutti. E’ un valore che si può barattare. La voce grossa apre sempre la strada alla compensazione: quanti minuti di telegiornali, di talk shows, di intrattenimenti vari si saranno guadagnati per “par condicio” Salvini e la Meloni (gratificata peraltro proprio ieri da una paginata iperletteraria di Repubblica)?

Per riprendere la domanda d’inizio (dove andremo a finire?) si dovrebbero però mettere in fila tanti altri casi, prima di Report, prevedendo che altri se ne dovranno contare. All’epoca di Berlusconi era la querela facile a zittire i giornalisti, adesso si va per le spicce: è l’aggressione, anche fisica (ne sanno qualcosa tanti cronisti e non solo a causa di mafiosi e camorristi), è la minaccia, è l’ostentata e urlata calunnia (avete in mente il leghista Alberto Bagnai che nell’Aula del Senato ha definito i giornalisti “propalatori di notizie false”), è una campagna diffamatoria che va in onda da anni. Si sono inventati, nel populismo di ieri e di oggi, cinquestelle in prima fila, la “casta” dei giornalisti, attribuendo i reali privilegi di pochi (mai segnalato però il nome del potentissimo distributore di apparizioni televisive, Bruno Vespa, pensionato d’oro) ad una intera categoria, logorata invece da una crisi che dura da decenni e che ha colpito quotidiani, riviste, televisioni, radio, una crisi che ha lasciato in strada decine e decine di giornalisti, che ha tagliato salari, che ha distribuito cassa integrazione e contratti di solidarietà in decine di gruppi editoriali, che ha ucciso giornali (mettiamoci pure l’Unità), che ha consegnato un settimanale “storico” come Panorama a Belpietro (ed altre testate mondadoriane finiranno nelle mani del neo editore), che ha esaltato in compenso una schiera di editori, grandi e piccoli, imprenditori armati di “tagli” (ieri Riffeser, Quotidiano nazionale, ha annunciato 112 esuberi su 283 dipendenti) e di “sussidi” (finché almeno non sono stati tagliati anche questi).

Diciamo che il giornalismo italiano vive ormai in una condizione di ricatto perenne, di fronte al quale può persino far sorridere la censura in Rai, censura comunque clamorosa perché la Rai è ancora un costosissimo “servizio pubblico”, per quanto malmenato dagli appetiti di molti e dagli accomodamenti dei più, in compenso impermeabile a qualsiasi critica che tocchi davvero la sua missione, la sua struttura, la qualità dei suoi prodotti. In difetto di ascolti, funestata da intrattenimenti di gusto orrendo (in palese concorrenza al peggio con le reti mediaset), gravata da una informazione ridicolmente istituzionalizzata, la Rai però sopravvive ad ogni scossone politico: di fronte alle novità si riassesta e continua. Per questo ringrazio Conte2 per non aver proclamato, all’esordio del suo nuovo governo “giallorosso”, la urgente riforma della Rai, riforma sempre solennemente promessa da ogni neo presidente del consiglio al battesimo del suo esecutivo e sempre accantonata nel giro di qualche giorno, quel tanto che bastava a risistemare le cose.