Repetita non iuvant: la rabbia per l’ennesima alluvione frutto degli ennesimi errori

Quanta rabbia  nel dover ripetere sempre le stesse cose con riguardo ai disastri idrogeologici (né solamente per quelli) e stare anche a ripetere che la storia non insegna nulla. Non lo insegna a chi è chiamato a governare la cosa pubblica e a chi in questa “cosa” vive avendo acquisito dalla nascita il diritto a starvi bene.

Ora è il ciclone che staziona da giorni sull’Italia e tartassa in modo particolare due regioni “centrali”: l’Emilia-Romagna e le Marche.

La prima già duramente colpita quindici giorni fa; la seconda otto mesi fa.

C’è rabbia nel ripeterle, ma almeno la speranza che ripeterle giovi. E così dopo le cose scritte il 3 maggio scorso e un anno fa  per le Marche oggi mentre scrivo, il 17 maggio, quelle cose le potrei clonare e riportare in questo articolo. Cambia parzialmente la geografia dei luoghi, ma i problemi restano sempre gli stessi.

Ma non voglio ripetere l’elenco delle cause note e delle altrettanto note responsabilità che, tra l’altro si possono leggere nei due articoli che ho citato. Quello che assorbe l’attenzione sono gli elementi del disastro e il tentativo di provare a rispondere alla domanda delle possibilità di ripresa e difesa per il futuro.

Un anziano soccorso a Faenza, dove ha esondato il fiume Lamone
Un anziano soccorso da poliziotti e vigili del fuoco a Faenza, dove ha esondato il fiume Lamone (foto Michele Lapini / Agenzia Fotogramma)

Anche perché, come ha scritto Mario Tozzi (Le bombe d’acqua e le nostre colpe, “La Stampa”, 17 maggio 2023), “Quando in pochi giorni, qualche volta in ore, piove la stessa quantità di acqua che in passato cadeva in sei mesi, non sembrerebbe si possa aggiungere altro: stavolta è tutta colpa della pioggia, di questa alluvioni più o meno improvvise che colpiscono la Penisola”. È proprio così, non viene voglia di ripetere le accuse alla insipienza umana che oltre ad essere causa di questi eventi “estremi” amplifica la gravità dei fenomeni innescati dalla natura. Ma bisogna farlo perché è anche un modo di provare a costruire un futuro meno invivibile.

Se l’anno scorso con riferimento alle Marche, scrivevo “L’ultimo di questi eventi è la catastrofica bomba d’acqua che si è abbattuta sulle Marche e in poche ora ha distrutto interi comuni: dalla più grande Senigallia ai più piccoli Cantiano, Sassoferrato, Ostra facendo anche dolorosamente contare morti e dispersi oltre alla distruzione di cose materiali e immateriali” non posso non chiedermi per quale accidenti otto mesi dopo la storia si ripete. E non posso non fare altrettanto sapendo che in queste ore fra Cesena e Faenza si contano morti, dispersi, sfollati in città e aree contigue invase da una quantità di acqua simile ad un mare in tempesta.

Ma senza dimenticare tutto questo proviamo a chiederci se è possibile impedire che tutto si ripeta con questa stessa gravità. Per esempio nel passaggio tra ottobre e novembre prossimo e futuri quando generalmente si ripetono eventi come quelli registrati in questo disgraziatamente atipico maggio?

Persone che abitano nelle zone colpite e hanno assistito ai fatti mi fanno notare che quanto accaduto tra ieri e oggi può segnare un punto di svolta anche per l’approccio futuro verso il reticolo idrografico. Le sezioni dei fiumi si sono rivelate insufficienti, anche di quei corsi d’acqua pur ben gestiti e manutenuti. Per esempio, Bellaria-Igea Marina, in provincia di Rimini,  è un comune che si è sostanzialmente salvato proprio perché il suo fiume (l’Uso, un piccolo torrente che in passato ha causato molti guai) una quindicina di anni fa è stato allargato, riarginato e adeguato con un sistema di casse di espansione che hanno ben retto alla piena. L’abitato e le campagne l’hanno scampata.

L’hanno scampata. E non per fortunata combinazione, ma per intelligenza umana consapevole dei rischi e delle possibilità di attutirne gli effetti.

Marche, alluvione del 2022
Marche, alluvione del 2022

Questo significa che quando i presidenti delle Regioni coinvolte e i sindaci dei Comuni alluvionati riceveranno i necessari contributi per il risanamento delle zone sinistrate dovranno rendersi conto di non dover solo alimentare la storica politica del rattoppo. Quella, cioè, che mette pezze, tampona falle, ma non rimuove le cause dei disastri.

Di più, questa rimozione non deve avvenire nei gabinetti politici degli amministratori, ma in luoghi in cui siano presenti e partecipi le persone “informare dei fatti”. Che sono i cittadini e chi li rappresenta nelle varie categorie sociali ed economiche. È quella che si chiama democrazia partecipata, in assenza della quale si continuerà in costosi rattoppi anziché in spese di investimento capaci di prevenire i disastri.

Disastri, anche questo va detto, che intanto non si trasformano in catastrofi come numero di morti, in quanto da dopo il 23 novembre 1980 (terremoto in Irpinia e Basilicata) esiste una Protezione Civile che quasi sempre e quasi dovunque svolge al meglio i  suoi compiti di soccorso. Insieme, peraltro, con Croce Rossa, e volontariato.

È bene ricordare questo, ben sapendo che in un Paese nel quale la difesa dell’ambiente e la sicurezza del territorio in cui vivono sessanta milioni di persone, fossero quotidianamente all’ordine del giorno  la Protezione Civile e le altre organizzazioni se ne potrebbero stare soprattutto tranquille a mirare il paesaggio.