“Rapito”: l’ultimo capitolo della critica civile di Bellocchio alla Chiesa cattolica
Metà Ottocento a Bologna, Stato Pontificio. I gendarmi di Pio IX bussano in via Lame alla porta degli ebrei Momolo Mortara, commerciante, e Marianna Padovani e li condannano a un inferno in terra. È la sera del 23 giugno 1858, sono venuti a prelevare il loro figlio Edgardo, di neanche sette anni, su ordine del Papa Re: è stato battezzato di nascosto, quando aveva appena sei mesi, dalla serva dei Mortara, quindi, non è più ebreo ma cristiano e secondo un diritto canonico che affligge menti e corpi in nome dell’unico Dio consentito, dev’essere strappato al padre, alla madre e ai numerosi fratelli e sorelle per ricevere un’educazione cattolica.
“Rapito”, una storia nostra
Un gesto disumano, da jihadisti col rosario e la croce, perfino il maresciallo incaricato della vessazione si vergogna. Del resto, sotto i papi cristianissimi ai tempi si ghigliottinava allegramente e sugli ebrei gravava ancora l’accusa medievale di deicidio, stigma terribile cancellato solo dal Concilio Vaticano II. La storia di Edgardo già aveva stuzzicato Spielberg qualche anno fa, è arrivata ora sugli schermi del festival di Cannes e opportunamente subito in sala per la regia di Marco Bellocchio, storico alfiere del nostro cinema, in pieno rigoglio creativo a 83 anni, si direbbe quasi una rinascita.
“Rapito“, girato con tempi drammaturgicamente perfetti ed efficaci piani narrativi paralleli racchiude dramma, emozioni, fine ricostruzione storica della violenta subordinazione ai danni delle comunità ebraiche (israelitiche si diceva allora), lampi onirici e sprezzo del fondamentalismo religioso degni del Bellocchio migliore. Una storia nostra, di anni in transizione nell’Italia risorgimentale e laica da un lato, nel potere temporale dei Papi dall’altro. C’è di più. È un film che rapisce, sì, in virtù di una regia salda e in tensione per tutti i 125 minuti del film e di uno sguardo potente sui misteri non sempre gloriosi della fede, gli affetti e il logorio del tempo sulle nostre vite.
Potente quanto il cast, con Fausto Russo Alesi (era il Cossiga nevrile e tormentato di “Esterno notte”) a restituire, insieme a Barbara Ronchi ‒ premiata col David di Donatello per “Settembre” convincente esordio di Giulia Steigerwalt ‒ l’abisso di dolore dei genitori di Edgardo, reso con sensibilità da Enea Sala, un volto tenero, perfetto nel ruolo, e, per gli anni della maturità, dal bravo Leonardo Maltese (era il coprotagonista con Luigi Lo Cascio nel “Signore delle formiche” di Gianni Amelio) . E rimangono impressi il variegato fascino del tracotante Pio IX di Paolo Pierobon.
Re dei cristiani, onnipotente sulla terra e feroce nel difendere le sue secolari prerogative, blandisce il piccolo Mortara diventando per lui madre e padre, gode a umiliare, fino al bacio della pantofola, il segretario degli ebrei romani (gli dà carattere Paolo Calabresi) che lo prega in ginocchio di restituire Edgardo ai suoi affetti. Sa giocare con le armi più fidate, dal cardinale Antonelli, un Filippo Timi più realista del re, all’implacabilmente sereno inquisitore del Sant’Uffizio, il domenicano Pier Gaetano Feletti, con Fabrizio Gifuni ancora in vena di trasformismo dopo il quasi conturbante Aldo Moro, sempre in “Esterno notte”.
Insomma, la pattuglia italiana a Cannes era ben rappresentata tra “Rapito” di Bellocchio, una produzione non certo esile, Nanni Moretti con “Il sol dell’avvenire” (unico film italiano a contrastare in qualche modo al botteghino le varie Sirenette, Guardiani della galassia, Super Mario Bros etc) e “La chimera” di Alice Rohrwacher, tangibili segni di una macchina “industriale” e creativa che sa stare all’altezza.
Le conversioni forzate dei bambini ebrei
Ma basandosi su quali appigli Edgardo era stato deportato dal suo nido familiare? Tal Anna Morisi, a servizio dai Mortara, l’aveva “consacrato” cristiano, con un fai da te di pura superstizione, temendo che, malato com’era ‒ aveva notato i genitori in preghiera davanti alla culla del bambino ‒ morisse senza ii sacramento del battesimo, finendo così nel Limbo degli spiriti senza peccato e però ancora privi del marchio DOCG, altro esempio, insieme al Purgatorio, di una creatività vaticana d’antan, in grado di costruire impalcature para-teologiche funzionali al governo del gregge cattolico.
Quel battesimo era stato confessato agli inquisitori e riconosciuto valido anni dopo, garantendo legittimità (la parola è grossa) alla sottrazione di Edgardo dalle braccia dei genitori. Meandri di una architettura costruita per il dominio delle coscienze, millenaria e pervasiva, intimidente perché fondata sulla indiscutibilità di un potere “santo” esercitato in nome di Dio. A Bologna liberata dal giogo papalino un processo farà luce: Anna Morisi aveva battezzato Edgardo per ingenua fede e per denaro l’aveva venduto all’Inquisizione. Padre Feletti, teocrate al midollo, si rifiuterà di riconoscere qualsiasi legittimità ai magistrati del nuovo potere laico.
La pratica ignobile delle conversioni forzate di bambini ebrei era comune. Il piccolo Mortara, nonostante le promesse fatte al padre di lasciarlo a Bologna, viene condotto a Roma. Il viaggio è vissuto attraverso i suoi occhi di bambino spaurito: la tappa nella chiesa di Senigallia dove Giovanni Maria Mastai-Ferretti, Pio IX, era stato battezzato, lo stupore in quel tempio così strano, le statue enormi, l’arrivo nella casa dei catecumeni, dove fa amicizia con il coetaneo Elia, ebreo del ghetto di Roma che lo consiglia di ripetere le formule di rito durante la messa perché “tocca fasse furbi”.
E sono liturgie, i primi assaggi della pompa vaticana, gli incontri col padre e la madre (straziante), il sogno di Edgardo: di notte entra in chiesa e libera il Cristo dai chiodi e dalla corona di spine, il Nazareno scende dalla croce e se ne va. Un pensiero di vita dopo l’impatto con l’Ecce Homo torturato e impaurente. Il caso Mortara esplode in tutta Europa, Pio IX attira la satira come il miele e Bellocchio gli regala un incubo: di notte una pattuglia di perfidi rabbini lo circoncide. In Vaticano si iniziano a sentire crepe nel potere temporale ecclesiastico e si avvicina Porta Pia.
Edgardo cresce, ormai ha una nuova famiglia e l’abbraccia, al punto di tentare vent’anni dopo, al capezzale della madre morente, di convertirla. Si sarebbe spento novantenne in Belgio, in un monastero, come Pio Maria Edgardo Mortara dopo una vita dedicata all’impegno missionario, dalla tragedia di una separazione forzata al marchio di una nuova fede: pure da questa rapito, estasiato. Le grandezze e le debolezze degli uomini, il Papa in gloria e nella polvere della rabbia popolare, le radici delle fedi, “Rapito” ha la forza dei classici, sfiora misteri ultimi, prende una posizione ma senza obbedienze ideologiche.
L’ultima “vague” di Bellocchio
Bellocchio – per la storia di Edgardo Mortara si è basato sul libro dedicato al caso da Daniele Scalise – aveva affrontato il tema del cattolicesimo romano anche nel 2002 con “L’ora di religione“, storia di una madre in corso di beatificazione e di un figlio strenuamente non credente, usando il nitore della forma per affilare ancor di più l’arma del dispregio verso le ipocrisie cattoliche e sociali in genere. Un puro Bellocchio ribelle (il regista da giovane aveva frequentato le scuole salesiane…) e ferocemente critico dell’assetto mentale borghese, quello senza sconti, lucido ai confini del disagio più profondo dei “Pugni in tasca“, il suo esordio del ’65 innervato dagli acri umori della personale esperienza familiare a Bobbio, nel Piacentino.
Un sentimento rivisitato tanti anni dopo, in “Marx può aspettare” del 2021, film inaugurale dell’ultima vague di Bellocchio. Riduttivo definirlo documentario: è uno sguardo a ciglio asciutto e cuore spalancato nella vicenda più dolorosa della sua famiglia, il suicidio del fratello gemello Camillo, quando aveva 29 anni. Parlano i fratelli, ormai canuti, Piergiorgio (tra i fondatori dei “Quaderni Piacentini”), Alberto, Maria Luisa e Letizia; rievocazioni, supposizioni, ciò che si poteva dire, ciò che si poteva fare. E quella battuta di Camillo, anima nella tormenta, a Marco, politicamente impegnato: “Marx può aspettare”.
Un film come atto dovuto e sentito, di lì Bellocchio sembra darsi ancor più liberamente alla felicità di raccontare. Ecco “Il traditore“, con tutte le cadenze del grande cinema civile, seguito dai 300 minuti di “Esterno notte“: sapiente gioco di atmosfere, a volte tra l’onirico e il grottesco, per una grande tragicommedia italiana. Sempre sorvegliato lo stile, attento a non esondare mai nel sentimentalismo, a cercare un filo nella Storia, come già in “Vincere“, del 2009, dedicato alla tragedia di Ida Dalser, amante del Duce e del figlio Benito Albino: ancora esistenze triturate dal potere che manipola e opprime, quello di “Sbatti il mostro in prima pagina” del ’72.
Al felice esito di “Rapito” hanno contribuito la sceneggiatura dello stesso Bellocchio affiancato da Susanna Nicchiarelli e dallo scrittore Edoardo Albinati. E poi la scenografia di Andrea Castorina, i notevoli effetti digitali e il montaggio di Francesca Calvelli, moglie del regista e Stefano Mariotti. Hanno prodotto Rai Cinema, Beppe Caschetto e Kavac Film di Marco Bellocchio e Francesca Calvelli. La pellicola è approdata nelle sale con 01 Distribution.
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