“Il male vende”, rap e trap volano anche sulle ali delle major discografiche

Il fenomeno è pervasivo, una moda pandemica, in periferia e nelle ZTL. Per ragazzi e ragazzini, in gruppo, da soli in cuffia, come sottofondo, in auto, ai giardini, la solfa è quella, quella la musica-collante, la colonna sonora imperante: rap, trap, rap hip hop, gangsta rap e via catalogando. Ritmi più o meno sincopati, bassi distorti, kick pesanti, autotune come se piovesse.

Servono chiarimenti. Kick: cassa acustica suonata tramite pedali dal batterista, il suono è gonfio, persistente. Autotune: manipolazione dell’audio tramite apposito programma, utile per ottenere, tra l’altro, quella voce da muezzin strascicata e insieme metallica, vagamente lamentosa che molti genitori commentano così: “Ma che roba è? Cosa dice?”.

Dice – per voce esclusiva di maschietti – rabbia, sconcezze, voglia di soldi, di fama, di svolte, vite di gruppo, bande ai margini che diventano il centro delle giornate. Una scena urbana da apocalisse sociale non prossima ventura, ma già in atto. Rapper e trapper hanno milioni e milioni di ascolti, parlano diretti a generazioni teen male o poco agganciate al mondo adulto, riempiono vuoti oppure piacciono perché “fa figo” immaginarsi duri e vincenti oppure “li sentono tutti, li sento anch’io”.

Ghetti e major discografiche

Vegas Jones, nome d’arte di Matteo Privitera da Garbagnate, anni 28, in “Onesto” canta: “Come nelle situa più pericolose/ Scappo dal Bangla per strada/ Frà siamo in pericolo rose/ Ce le vuole vendere frà/ A chi la vorresti dare a bere frà?/ Frà siamo sotto controllo/ La city parla, i muri parlano/ I miei frà parlano, i miei brr parlano/ E fanno i soldi con il verbo/ Voi ancora che parlate/ Sto team è fresco, che cazzo/ Non lo sapete che abbiamo in cantiere/ Sembrate gli anziani di zona a guardare il cantiere”.

Rondo Da Sosa su Tik Tok

Profumi forti di periferie mollate a se stesse, ghetti subìti e idealizzati, eccessi, drogherie varie, sbirri bastardi, sesso precoce e un abbondante condimento di autoreferenzialità, come da tradizione rap nera statunitense. E marcatura del territorio in nome di una pretesa alterità: un “come noi nessuno” strafottente e bullistico. Il brodo dell’ultimo rap/trap è questo, fate largo che arriviamo noi.

Un qualsiasi quattordicenne con i compagni di scuola potrebbe anche ascoltare il “fratello maggiore” Rondo da Sosa, al secolo il ventenne milanese Mattia Barbieri, in “Chinga”, traccia permeata da accenti non molto stilnovisti: “Se la mia bitch non ha lo smalto bianco non la scopo/ Nella street, Zamagna luogo (Murder, murder)/ Più di un opps si è sempre pisciato addosso/ E quelli del tuo blocco mi chiedevano le foto/ Se la mia bitch non ha lo smalto bianco non la scopo/ Siamo intoccabili a Milano/ Canto finché non mi ammazzano/ Fuck my opps, murder nel blocco/ Conteggi salgono/ Le ragazze in disco per noi impazziscono”. Subcultura? Mica tanto “sotto”. Rondo da Sosa pubblica con Warner Records e il video ufficiale di “Chinga” (esordisce con voce off femminile che dichiara aperto un orwelliano “sfogo annuale”, seguono alcuni minuti di un libera tutti con risse, bastonate, sangue, gang a spasso in cerca di prede) ha avuto quasi quattro milioni di visualizzazioni.

Baby Gang

Scendiamo a Roma con il venticinquenne Fasma, Tiberio Fazioli, per un altro assaggio di impudenza rappata, da “Tu sei Fasma”: “Fanculo questa troia, ho una donna tra le lenzuola/ Questa prima odia, adesso me lo chiede in gola/ Sul palco siamo tutti, sembra di restare in zona/ Mi vesto come voglio/ Fanculo tutta sta moda/ Fanculo la mia scuola/ Un fanculo per chi mi odia/ Un fanculo a chi parla male e poi mi tagga nella storia/ Fanculo a chi ti dice: ‘Non farlo’, tu invece prova/ Sta vita è una sola, per farlo basta mezz’ora/ Mi sogno sopra un’auto che schizza a 200 all’ora/ Mi sogno sopra un attico con la vista su Roma/ Mi sogno con lo stadio che sembra una voce sola/Tutti insieme in coro mi dicono: ‘È la tua ora’”. A proposito di esibita autoreferenzialità.

Licenza di offendere

Fasma lo pubblica Sony e lo fa, come le altre major, perché rap e trap hanno un sacco di streaming, la Sony mica è in missione per conto di Dio, della famiglia e dell’educazione giovanile. Altrimenti non si terrebbe in scuderia anche Junior Cally (Antonio Signore) da Genzano (Roma), interprete di “Si chiama Gioia”: “Si chiama Gioia ma beve e poi ingoia/ Balla mezza nuda e dopo te la dà/ Si chiama Gioia perché fa la troia/ Sì, per la gioia di mamma e papà”. In tempi di #metoo basterebbe un ventesimo di questo maschilismo trinariciuto per essere licenziati e messi in naftalina, invece non pochi rapper/trapper, come l’agente 007, hanno la licenza di offendere. Di pubblicare simili laidezze fosforoscenti con lampi di volgarità. Per fortuna Junior sa fare di meglio, come in “Magicabula”: “Magicabula, arriva la pula/ Fratello tu corri di più/ Shalakabula, tu corri di più/ Biddibi-bobbidi-bu/ Evita le manette, taglia panette”. Dove le panette sono i pani di hashish, si suppone. Realtà romanzesca: Junior Cally è stato a Sanremo nel 2020 con una canzone di denuncia politica. E vabbè.

Simba La Rue e Baby Touché

Il genitore di cui sopra, in modi non politicamente corretti potrebbe anche dire: “‘Ste canzoni sembrano tutte uguali, mica è musica, è una preghiera da marocchini”. L’ultimo appunto sfiora una parcella di verità, perché sulla scena rap/trap italiana i figli di genitori maghrebini non sono pochi, ciò che vuol dire qualcosa o niente, se non curricula vitae che annoverano carcere minorile, comunità educative, ghetti duri, povertà, giri di spaccio. Tappe di formazione/deformazione toccate, almeno in parte, da quasi tutte le stelle più brillanti del nuovissimo firmamento rap/trap (tanto per sapere, a differenza del rap, nel sottogenere trap si utilizzano sintetizzatori per la parte strumentale, l’autotune, bassi distorti). L’italo-tunisino Simba La Rue, al secolo Mohamed Lamine Saida, vent’anni di Merone, in quel di Como, è un trapper ai ferri corti con il collega Baby Touché, ovvero Amine Amagour, diciannovenne di origini marocchine.

Simba La Rue, Tik Tok

Del sequestro-faida operato dal primo ai danni del secondo si sono riempite le recenti cronache e non meno famoso, per storie di coltelli, risse e pistole è Baby Gang, il ventenne Zaccaria Mouhib, famiglia marocchina, di base a Milano. C’è la sua firma su “Baby”, che suona così: “Yao, Giangi, Baby Gang, Yao Yao, Yao. TN, VM, bocca chiusa col PM/ Sbirro di m cerca nelle mie TN/ Trova sotto la mia suola il PM/ Ricordo che ero solo/ Fraté, un minorenne e basta soldi in tasca/ Bandana in testa, testa Vallanzasca/ Ho la guerra in testa, mica in testa i rasta/ Yao, Yao”. Renato Vallanzasca mentore spirituale, ok, però una volta in Questura tante creste si abbassano.

Per restare in area, ecco qualche “delicata” riga del sopracitato Simba La Rue, scuderia Atlantic/WM Italy: “Guanti neri/ Glock vera, Proiettili veri/ Tu-tu-tu stai attento, fai mafia con me/ Hai già perso/ Casa mia cade a pezzi/ Vuoi fare il gangsta/ Piangi se finisci al fresco/ Simba la détail, détail sopra a un fuoriserie/ Passo frontiera, faccio i danni, due mesi e cambio paese/ La notte piangi in galera, due buchi, arrivederci/ Tua mamma non è più fiera quando scopri i tuoi debiti”. Dètail, vendita al dettaglio, non certo di frutta e verdura.

Il male vende

Parole di sfida, la voglia di sovrapporre arte (con o senza virgolette) e vita, senza quasi mai i talenti del primo spericolato Vasco. I rapper si vogliono fedeli alle radici tossico-emarginate perché hanno un’immagine da difendere, mica possono ammorbidirsi, e poi è da lì che nascono le loro canzoni. Gué Pequeno (Cosimo Fini), 42 anni, è un antesignano, un rapper di culto pubblicato da Universal e forse sente sul collo il fiato delle nuove leve quando canta: “Fanculo a questa industria che mi ha tenuto stressato/ La sbattella, la parcella del mio fottuto avvocato/ Resto al posto pregiato con gamberoni e avocado/ In questa storia rap sono e sarò sempre un capo/ Fanculo a sto marmocchio che dice che ho perso il tocco”. Una logica da branco animale e maschi alfa.

Quanti sono i rapper/trapper emersi in Italia? Tedua, Marracash, Ernia, Rocco Hunt, Mambo Losco, Gemitaiz, Emis Killa… Un esercito, guidato dallo “storico Salmo” (Maurizio Pisciottu, 38 anni di Olbia), che in “Salmo 23” canta: “Se vendi troppo, in Italia ti vanno contro/ Partito dal bassofondo, la spinta all’estratto conto/ Ma strano se te la tiri, ‘sta gente va su di giri/ Un palo in culo, fachiri, vi mando a fare i facchini, ah/ Quando indico la Luna, mi convinco che sei tu il rincoglionito/ Perché guardi il dito/ Sì l’ho capito che il tuo disco è uscito”. E noto perfino a un pubblico generalista è Sfera Ebbasta, il quasi trentenne Gionata Boschetti di Sesto San Giovanni: “Quando rappo a ‘sti froci gli viene il panico/ Già lo sanno che è meglio se scompaiono/ Ogni pezzo che ascolti ti viene il panico/ Il tuo disco è scarico”.

Salmo

Salmo viene annoverato tra i rock rappers, musicalmente duri e, in certi casi, con qualche engagement politico-sociale, da Mike Zaffa (Giorgio Ferrario) agli urticanti savonesi DSA Commando, hip hop ai limiti e oltre (“Sputo”: “Questa città mi ha dato sabbia e sassi/ Acqua salata, diciottenni a mano armata/ E una mentalità dell’ottocento fitta al baricentro/ Quando sento, di bambini fatti di ero/ Nel sottopasso in stazione solo per una noia ed una distrazione/ Ho messo il culo in ogni via da Genova a Mentone/ E me la sento mia in ogni mattone, panca o portone/ E sto deserto me lo porto addosso e te mi guardi male/ Se ho portato il nome nostro in tutto lo stivale”).

E qui siamo davvero nell’underground, dove il rap è nato, nella periferia mortifera del famoso film del ‘95 “L’odio” di Mathieu Kassovitz, vincitore del premio per la miglior regia a Cannes, un bianco e nero con Vincent Cassel che parla di banlieue parigina, di un ragazzo ucciso dalla polizia, del viaggio metropolitano di tre amici sul filo della rabbia e della violenza. Un film parlato, nella versione originale, in verlan, gergo parigino creato invertendo le sillabe delle parole, una chiave usata molto dai rapper italiani, la “riocontra” (contrario), insieme a rime e allitterazioni. E “La Haine”, “L’odio”, s’intitola la canzone del ventunenne Rhove, Samuel Roveda, di Rho (Milano), pubblicato da Universal: “Marsiglia, Marsiglia/ Milano, la Madonnina brilla sotto gli occhi della police/ C’erano le dune sui vassoi/ In zona ci sono troppi bebè che pensano solo a farsi soldi/ Poi un amìs, ah, due amìs, ah/ Persi perché si sono concentrati su delle cose che non servono mica/ Ho provato a portare un bebè sulla giusta via/ Mi ha fatto capire che se sei così rimani così, ah/ Continuano a fare i cattivi perché il male vende/ Capiranno che rincorrono una cosa che non serve”.

Il male vende, la concorrenza è tanta, con le nuove leve pronte – si è visto – ad alzare la posta della provocazione. Succede là fuori in città, piccoli miti e baratri veri, idee furbette e spazzatura, tranches de vie taglienti, forti e cliché narrativi monocordi, se va bene un po’ di poesia, di rabbia onesta. E una platea sterminata ad ascoltare.