Raccontare ai giovani
la strage di Bologna
contro l’odio di oggi

E’ un sabato mattina e ho davanti a me un centinaio di ragazzi delle scuole superiori bolognesi, i licei classici Galvani e Minghetti. Dopo la vittoria, questo autunno, del Premio Matteotti la Regione Emilia Romagna mi ha chiesto di andare nelle scuole per parlare della Strage alla Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980. Da dieci anni a questa parte mi è capitato molto spesso di farlo. Sabato questo incontro è stato legato al giorno della Memoria.

Che cos’è la memoria? La memoria è per definizione la riproduzione dell’esperienza passata: uscendo dalle vicende personali, la memoria collettiva è un percorso in cui, oltre alla consapevolezza di quanto accaduto, si prende atto in particolare degli errori della storia e si cerca di non ripeterli.
Davanti a me ci sono quattro, cinque classi. Ragazzi diversi, volti diversi, tratti somatici differenti. Anche il 2 Agosto 1980 alla Stazione di Bologna c’erano persone che provenivano da luoghi eterogenei: la bomba ad elevato potenziale fatta esplodere alle 10.25 e per cui ancora si attendono dopo molti anni di processo i mandanti ha ucciso 85 persone e ne ha ferite 200. Tutte diverse, bolognesi da generazioni, persone provenienti dal Sud Italia, stranieri.

Queste stragi spesso non fanno distinzioni, al massimo uccidono per categorie, per simboli: erano ragazzini che assistevano ad un concerto il 22 Maggio 2017 durante il concerto di Ariana Grande alla Manchester Arena. 22 morti, 800 feriti, erano famiglie operaie che partivano per le vacanze quel 2 Agosto. Avvenuta l’esplosione, le persone presenti soccorsero i feriti, scavarono tra le macerie. Ognuno per come poteva – disinteressandosi delle etnie, delle religioni, dei tratti somatici. Di fronte a un gesto tanto efferato, tanto ignobile, l’unica reazione giusta era, è – e sarà sempre questa.

Ho raccontato queste cose mentre un ministro della Repubblica si pavoneggiava di avere lasciato per una decina di giorni un barcone in mezzo al Mediterraneo, un barcone pieno di gente e pieno di minori, minori con l’età di quei ragazzi che ho incontrato sabato. A cosa dovrebbe servire la memoria? Dovrebbe servire a non commettere più gli stessi errori.

Eppure questi errori accadono ancora: se capitasse, ed è capitato, che un campo di concentramento fosse paragonato a un immaginario (epico) parco giochi, il processo di disumanizzazione la parte ideologica e programmatica di alcune forze politiche avrebbe raggiunto la giusta summa. L’ideologia anti-politica e populistica si nutre di questa disumanizzazione: nessuno oggi – probabilmente con la retorica che questa gente propone – avrebbe mai soccorso, finanche toccato quei 200 feriti, nessuno avrebbe scavato per estrarre le vittime delle macerie. Questo va raccontato: chi siamo e soprattutto chi saremo dipende innanzitutto da noi, da chi decidiamo di essere. Un gesto forse in altri tempi “normale”, cioè aiutare chi ha più bisogno di noi, chi è in difficoltà, chi rischia di morire diventa oggi – nella società di oggi – un gesto straordinario, un gesto epico come epico fu quel giorno Agide Melloni, l’autista dell’autobus numero 37 che portò col suo mezzo di quotidiano lavoro i corpi delle persone coinvolte verso il cimitero della Certosa di Bologna per poi riprendere il giorno dopo il suo quotidiano servizio.

Agide e tutte le persone che quel giorno decisero di aiutare le persone in difficoltà non sono tuttavia degli eroi straordinari, ma persone comuni: è straordinaria piuttosto la rabbia, la cattiveria, la chiusura che giorno dopo giorno ci sta attanagliando. Quella cattiveria che ha mandato a morire milioni di persone nei campi di concentramento, la rabbia che – in maniera diversa ma costante – nel mondo esplode e provoca dolore e disperazione.

Siamo noi a decidere con quali occhi le nuove generazioni vedranno il mondo: non consegniamogli una prospettiva di odio. Abbiamo già dato, abbiamo già sperimentato. Non pensiamo che l’odio che portiamo in corpo non possa mai un giorno essere indirizzato da qualcun altro verso di noi.