Quella scuola dei “buoni a nulla”
La sfida dei maestri di strada

Sí, una guerra a Napoli l’ho vista. Non si combatte nei vicoli ma nelle scuole. Non ci sono armi ma un esercito di maestri di strada e centinaia di ragazzi che tutti davano per persi. Anzi dispersi. Ho camminato per le loro strade, ho visto dove vivevano, li ho ascoltati, ho applaudito ai loro spettacoli, ho sentito la loro rabbia e sorriso dei loro sorrisi. L’ho fatto in compagnia dei maestri di strada e della loro scuola che ora vi racconto.

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Il sole intiepidisce la stanza dai muri scrostati. Filtra attraverso un telo di plastica che si gonfia con il vento. La plastica è spessa, il maestro ha fatto un buon lavoro.
– Professore, questa è meglio della finestra –. Ciro ride indicando la riparazione di fortuna mentre cammina in tondo nella stanza, come se avesse qualcosa di urgente da fare. In mano ha un rotolo di cartone. Colpisce a casaccio i suoi compagni sulla testa. Cosí per sfogarsi. Non fa male.
– Smettila! – gli urla Renata che non sopporta i suoi scherzi.
La finestra l’ha rotta lui ieri.
Ciro combina sempre un sacco di guai ma questa volta non è stata colpa sua. Francesco lo ha spinto per gioco e il vetro è andato in frantumi. Per fortuna nessuno si è fatto male. Ma il maestro, che tutti chiamano «professore», si è arrabbiato lo stesso.
– La dovete smettere di rompere le cose! Non capite che anche questa è casa vostra? Che qui ci dobbiamo stare tutti, e ci vogliamo stare bene, se possibile? – aveva tuonato Cesare. Di mestiere fa il maestro di strada, anche se insegna al chiuso, in una scuola. Solo che lui, e altri cinque insegnanti come lui, i ragazzi li vanno a pescare tra i pluriripetenti, tra quelli bocciati alle medie, a volte anche alle elementari, li incrociano nei quartieri della disperazione, tra le famiglie sfasciate o troppo povere.

La loro scuola è speciale, unica al mondo. Ci sono pochi banchi e nessun libro di testo, anche se si imparano l’italiano, la matematica, la geografia e tante altre cose. Non si urla se uno scrive le parole sbagliate o se ha difficoltà a leggere. Non ci sono voti perché per imparare è meglio un abbraccio che un brutto voto.
Cesare, il maestro di strada con la barba e gli occhi che brillano, ricorda ancora il primo colloquio con la madre di Ciro.
Era stata chiamata dalle assistenti sociali.
– Ciro ha quindici anni e non ha finito la scuola, c’è una possibilità, – le avevano detto.
Ma lei resisteva.
– Quello non è buono a nulla, sta sempre in mezzo a una strada, nun tene’ a’ capa pe’ studià, non ha la testa per studiare.
Le assistenti sociali avevano insistito e alla fine si erano ritrovati tutti attorno a un tavolo: la mamma, Ciro e le signore dell’assistenza. C’era anche Cesare, determinato a far prendere il diploma delle medie a quel ragazzo che a scuola non ci andava da un pezzo.
Ciro aveva lo sguardo fisso a terra e un cappello da baseball che gli nascondeva metà viso.
– Hai ancora una possibilità, ma ti devi impegnare!
– No, la scuola non è per me, e poi tengo quindici anni, non ho voglia di trovarmi con i piccirilli, – aveva risposto lui.
La mamma si era limitata ad annuire. Per la prima volta in vita sua era d’accordo con quel figlio che non le dava nessuna gioia.
– A me non piace faticare, – ripeteva lui.
Ma poi si era aperta una piccola crepa sul muro di rifiuti che aveva eretto.
– Cosa dovrei fare in questa scuola? – aveva chiesto con la faccia annoiata, calandosi ancora di piú il berretto sulla testa, quasi a sprofondarci dentro.
– Intanto, guardami negli occhi, – gli aveva risposto Cesare. E quando il ragazzo aveva sollevato lo sguardo, gli aveva sorriso di soddisfazione. – Devi venire a scuola, al resto ci pensiamo noi.
Poi tutti avevano firmato un patto, una specie di promessa scritta. Ciro avrebbe frequentato la scuola dei maestri di strada e si sarebbe impegnato ad andarci ogni giorno. La mamma, per niente convinta, aveva accettato.
– A tuo padre lo dici tu, – gli aveva detto con un tono di disprezzo. Ai piedi portava delle ciabatte logore e sotto la giacca spuntava la tuta da ginnastica. Solo le unghie, in mani screpolate dalla fatica, erano tinte di un rosso fiammante.
Il ragazzo si era limitato ad alzare le spalle. Lo sguardo era tornato spento, fisso su una mattonella del pavimento. La piccola luce di curiosità che, per un attimo, era brillata sul suo volto grigio se ne era andata. Il papà era in galera e ci sarebbe rimasto ancora per qualche mese.
A scuola Ciro si è mostrato subito per quello che è, un osso duro. Combina guai, dà fastidio a tutti ma non molla, anche se il suo buongiorno è sempre lo stesso.
– Ve l’ho detto, a me non piace studiare, – ripete all’insegnante. Resiste solo perché non è obbligato a stare seduto al banco. Quando è troppo nervoso lo lasciano andare a zonzo per la scuola.
Di banchi, nelle aule, ce ne sono pochi. Si fa lezione in cerchio o seduti dove capita.
In classe sono una quindicina, tra ragazzi e ragazze. Ma c’è sempre qualcuno che non si presenta a lezione. Se l’assenza dura piú di qualche giorno, i maestri di strada lo vanno a cercare. Sanno che basta poco per perdersi di nuovo e non tornare piú a scuola.
Vincenzo anche lui ha quindici anni ma ne dimostra a malapena undici. È piccolo e magro, con degli occhiali dalle lenti spesse da miope. Ha un’aria buffa e i dentoni sporgenti, sembra sorridere anche quando è imbronciato o malinconico.
Angelica, la spilungona della classe, lo coccola come fosse una chioccia, e lui si lascia coccolare. Anche Ciro diventa allegro quando Angelica gli parla e fa il buffone per farla ridere. Ma lei preferisce passare il suo tempo con Renata, che ama recitare, e soprattutto con Carmela, l’amica del cuore, la piú brava di loro. Che però a scuola ogni tanto si addormenta. E tutti la lasciano riposare.

Questo brano

è tratto dal libro

di Vichi De Marchi

“I maestri di strada”

(Einaudi Ragazzi, euro 10)

da oggi in libreria