Quella “cosa” che divise il mondo
e contro la quale si poteva morire

Pubblichiamo la prefazione di Walter Veltroni al libro “Quando il Muro cadde anche in Italia”, di Paolo Soldini, edito da strisciarossa.

Succede raramente nella storia che un evento, uno di quelli che segnano le svolte e i giri di sorte degli uomini e delle nazioni, abbia un “corpo”. Certo ci si ricorda della marcia su Roma o della notte dei cristalli o della presa del Palazzo d’Inverno: questi eventi hanno immagini, luoghi ma non un corpo. Il Muro invece è soprattutto un corpo, ovvero un fatto fisico, visibile, misurabile contro il quale si batte la testa o per superare il quale si perde la vita. Quel Muro era stato messo in piedi in pochi giorni nel 1961: tra il 12 e il 15 agosto il regime dell’Est cominciò a gettare i reticolati poi si passò ai mattoni e al cemento e per decenni questa “fabbrica di san pietro” non smise mai di essere migliorata con i cavalli di frisia, le terre di nessuno, i sensori di transito, le garitte dei Vopos, i fari di illuminazione le sentinelle pronte a sparare.

L’Europa aveva messo al centro del suo cuore questa città, Berlino, e questo Muro che rendeva visibile e palpabile il segnale della divisione e della separazione radicale. Era stato Churchill a parlare di “cortina di ferro” (espressione strana, a dire il vero, che alludeva a quel sipario metallico che a teatro separa il palcoscenico dalla platea in caso di incendio) ed ecco che il sipario aveva preso la massa e il peso di quel cemento e dei mattoni nella città che più di ogni altra aveva segnato la sorte del mondo nel cuore del Novecento.

Giorni straordinari

Leggere il libro di Paolo Soldini ci riporta, trent’anni dopo, ai giorni straordinari e storici della sua caduta, alla difficoltà di comprendere bene cosa stesse accedendo, al clima stralunato di quei giorni di ottobre e novembre. Una prima considerazione: è più lungo il tempo che ci separa da quella caduta di quello in cui il Muro è stato in piedi. Di molte altre cose di trent’anni fa avremmo ricordi ben più sbiaditi, il fatto che quell’ottobre dell’89 sia ancora così vivido nei nostri occhi ci dice quanto quello che stava avvenendo avrebbe segnato il nostro futuro. E quando dico nostro penso a quello di noi europei, di noi italiani, di noi sinistra italiana e sinistra comunista.

Il racconto di questo libro tesse insieme gli eventi – che furono insieme improvvisi e annunciati da scosse telluriche – la percezione che se ne ebbe allora – insieme piena di emozione e di incertezze, di vivida percezione e di miope capacità di previsione – e la consapevolezza della svolta che avrebbero alla fine preso gli eventi. Ci sono le file di Trabant al confine tra Ungheria e Austria, ci sono le immagini della conferenza stampa in cui un dirigente della già terremotata Sed (era il nome del partito comunista di quella che si chiamava Repubblica Democratica Tedesca) annunciava senza neppure averlo capito bene la fine del Muro.

Ricordi di un cronista

È bellissimo il ricordo di Soldini (che non è solo un bravissimo e colto giornalista, ma anche un amico con cui ho condiviso, in ruoli diversi, il lavoro e la passione politica) di quella notte con i tre articoli scritti per l’Unità e le concitate telefonate alla redazione. Quelle chiacchierate con Nuccio Ciconte (era il capo del servizio esteri, un altro amico che purtroppo non c’è più) in cui tra i due – uno a Berlino e l’altro a Roma – ci si scambiavano informazioni e opinioni. Gli eventi avevano preso una piega tanto veloce e inattesa che quel Muro era prima sembrato solo scalfito, poi aperto e infine crollato. Tutto in una notte. Una notte in cui i berlinesi avevano cominciato a recarsi nei posti di passaggio (quelle strettoie super controllate, quei check point raccontati dai film di spionaggio in notti nebbiose e nervose) dove le guardie che ventiquattr’ore prima avrebbero sparato finirono per alzare le sbarre e assistere impassibili ad un esodo biblico. Ricorda Soldini che quella notte 75.000 berlinesi attraversarono il confine e la mattina dopo rientrarono a Berlino Est per lavorare o portare i figli a scuola. Altri, i più giovani e i più insofferenti iniziarono a buttarlo giù. Era un mondo senza cellulari in cui anche i telefoni fissi funzionavano male. In cui gli articoli si dettavano e non si spedivano per mail, in cui anche i semplici contatti con la redazione erano faticosi e incerti.

L’Unità e il Partito

Una cosa mi ha colpito nel libro e riguarda proprio l’Unità. Soldini è stato per anni il corrispondente del giornale da Bruxelles, che vuol dire dalle istituzioni europee e della Nato, e l’inviato incaricato di seguire le cose tedesche. In quegli anni (e nel libro sono riportati almeno due episodi significativi, una visita di Pajetta prima e quella quasi incongrua di Natta già in piena epoca gorbacioviana) il rapporto tra giornale e Pci era molto cambiato. Da un legame ombelicale si era passati a qualcosa che non definirei un conflitto a bassa intensità ma a una sorta di tensione e rivendicazione di autonomia. Nel racconto di quei giorni c’è qualcosa di più. Il gruppo dirigente del giornale decise di scegliere i titoli, la loro collocazione, il peso da dare agli eventi senza in alcun modo confrontarsi col partito: gli eventi erano troppo grandi per affrontarli con la cautela che la mediazione con la politica avrebbe alla fine chiesto. Tre anni più tardi fui nominato direttore del giornale. Con questi giornalisti, con questa redazione mi trovai a lavorare per anni difficili ed esaltanti e molte delle cose che facemmo insieme all’Unità avevano le loro radici proprio in quei giorni e in quei fatti.

Il Muro cadde e il crollo fece un rumore assordante. Fa bene Soldini a ricordare le reazioni di allora, la battuta di Andreotti (e con lui di tanti anche negli ambienti diplomatici europei) che già rimpiangevano le certezze delle vecchie divisioni. Fa bene anche a ricordare che passarono solo pochi giorni da quel crollo all’intervento di Achille Occhetto alla Bolognina che avrebbe dato il via alla trasformazione del Pci. Il Muro che cadeva a Berlino cadeva anche a Roma, cadeva in Europa, cadeva come l’aprirsi di una faglia in tutto il mondo del “comunismo realizzato”. Iniziavano come le tessere di un immenso domino a venir giù realtà che apparivano incrollabili. Soldini ricorda come anche tra gli osservatori più acuti e smaliziati solo pochi giorni prima che divenisse realtà l’idea della scomparsa del Muro apparisse una semplificazione ingenua. E con onestà ricorda come la fine della RDT e l’unificazione apparissero a lui stesso come ipotesi lontane. Tutto avvenne con più rapidità, con più radicalità di come ci si aspettasse.

Una macchina micidiale

Ma il libro non si ferma qui, alla ricostruzione, all’analisi, ai ricordi di allora. Con una virata inattesa gli ultimi capitoli sono dedicati ad un fenomeno che forse in Italia è stato meno avvertito, ma che ha segnato profondamente la coscienza tedesca: l’emergere della reale dimensione avuta dalla Stasi, dai servizi di sicurezza e di polizia politica del regime, nella storia della RDT e dei suoi abitanti. Bastano alcuni numeri. La Germania est aveva 16 milioni di abitanti, più di due milioni di loro erano stati schedati e oggetto di spionaggio e dossier. La Stasi aveva 200.000 agenti e quasi altrettanti informatori. Una macchina gigantesca, un numero tanto grande di dossier e di spiati da essere quasi inutile.

A che serviva la Stasi? L’idea che esce da questo volume è quasi kafkiana: serviva a costruire una rete così fitta di agenti, informatori, spiati che poi finivano per diventare delatori da avvolgere e imbrigliare un intero paese. Al di là dei numeri (che sono tanto grandi da essere unici nella storia delle polizie politiche) dal libro escono alcune figure che hanno la forza di personaggi drammatici e insieme miseri. Storie di intellettuali brillanti teatranti e scrittori famosi e ammirati, personalità vissute come esponenti di un dissenso metà tollerato metà perseguitato finiti a fare la spia. Storie di ragazzini di famiglie ebree scomparse nella Shoah finiti per essere allevati come i figli prediletti del partito e mandati a fare gli infiltrati e i delatori tra gli intellettuali dissidenti. Gli uomini e le donne che spiavano erano i loro amici, avevano idee che le stesse spie forse condividevano. Quando i loro nomi emersero dagli infiniti archivi della Stasi, talvolta le loro vittime rifiutavano di accettare la realtà. E’ in questa pervasività, in questa macchina senza sentimenti, nella sua capacità di ricatto e di persuasione che è il cuore di questa tragica vicenda. Ed è questo uno degli elementi più profondi di questo libro.