Il reddito di cittadinanza e gli orrori della lotta armata

Che Federica Saraceni, brigatista (poi “dissociata”) delle cosiddette Nuove Brigate Rosse, condannata a ventuno anni e sei mesi di reclusione per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, omicidio avvenuto il 20 maggio 1999, da tempo ormai in stato di detenzione domiciliare, riceva dall’Inps, cioè dai suoi concittadini, 623 euro al mese grazie alla legge che ha introdotto anche in Italia il reddito di cittadinanza, può suscitare meraviglia, stupore, sorpresa, scandalo, sentimenti che è probabilmente giusto condividere, senza tuttavia che possano per conto loro scalfire la legittimità del provvedimento.

La legge non sempre fa giustizia

La legge è la legge e potrebbe appunto consentire il provvedimento. La legge può essere sbagliata o maldestramente interpretata e applicata (il codice penale per condanne gravi non prevede l’interdizione dai pubblici uffici e quindi la cancellazione di qualsiasi beneficio economico a carico dello Stato?).

Non è detto che la legge faccia giustizia, come ci ha ricordato con grande sobrietà Olga D’Antona, vedova del professore assassinato a pochi passi dal portone di casa, colpevole secondo gli emergenti terroristi d’essere un consulente del governo D’Alema e del ministro Bassolino. Ma intanto la legge vale. Federica Saraceni, figlia peraltro di Luigi Saraceni, ex magistrato, poi avvocato (fu lui a difenderla insieme con altri insigni colleghi, principi del foro), quindi parlamentare per il Pds e poi per i Verdi, non può contare su un reddito, non ha un lavoro e può vantare quindi tutti i requisiti reddituali, patrimoniali e occupazionali, pretesi dalla norma e dall’Inps.

E la condanna? Una questione di anni, secondo l’interpretazione del presidente dell’Inps, Tridico: se la condanna fosse arrivata negli ultimi dieci sarebbe scattato il blocco, ma Federica Saraceni è stata condannata dodici anni fa (la sentenza della Corte d’assise, confermata in Cassazione, è del 2008). Quindi, secondo Tridico, Federica Saraceni sarebbe a posto. Ma la storia dei dieci anni sta in due righe assai ambigue, dove pare che reati e condanne si riferiscano solo a false dichiarazioni, manomissioni di documenti, eccetera eccetera, reati e condanne tutte riferite alla legge sul reddito di cittadinanza. Niente a che vedere con le responsabilità di Federica Saraceni.

 

Che cosa prevede la norma sul reddito

L’articolo 7, ai commi 1,2, 3, recita in sostanza che chiunque, al fine di ottenere il beneficio indebitamente, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni, che l’omessa comunicazione della variazione del reddito, anche se proveniente da attività irregolari, del patrimonio… quando la variazione avrebbe comportato la revoca o la riduzione del beneficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni. L’articolo 7 recita ancora che, alla condanna in via definitiva nei casi sopra citati, consegue l’immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva e il beneficiario è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente percepito. Arrivano finalmente i dieci anni: “Il beneficio non può essere nuovamente richiesto prima che siano decorsi dieci anni dalla condanna”. Mi appello alla sapienza dei giurisperiti: che c’entra tutto questo con la banda armata?

Sappiamo bene invece che chiunque, qualsiasi delitto commetta, scontata la pena, riacquista i diritti di ogni cittadino. Riacquista soprattutto la possibilità di riappropriarsi della propria vita. Il “fine pena mai” valeva solo nei manicomi, prima che li chiudessero. Ci siamo inventati persino il “diritto all’oblio”, perché un delitto e le relative conseguenze non gravino sulla persona lungo tutta la sua esistenza. Federica Saraceni, come ci ha ricordato Olga D’Antona, non ha finito di scontare la condanna, il carcere lo ha frequentato per sei anni soltanto, non avrebbe neppure manifestato segni di ravvedimento. La legge sul reddito di cittadinanza non deve accertare pentimenti, dissociazioni o altro: conterebbe, secondo il presidente dell’Inps, solo quella barriera dei dieci anni.
Si potrebbe accusare gli estensori della legge di averla scritta male, d’aver lasciato aperto un varco. D’altra parte una legge può considerare alcune ipotesi di applicazione o, al contrario, di negazione. Non può registrarle tutte. Anche chi sbraita adesso (Lega in prima fila, che era maggioranza di governo) non s’è accorto del possibile inciampo: cattive interpretazioni, cattive letture… Staremo a vedere…

Il peso ingombrante degli anni di piombo

Altre considerazioni però il “caso Saraceni” le potrebbe suggerire.

Il padre di Federica Saraceni, Luigi, ricordando la difficile condizione economica della figlia (che deve crescere un bambino), ci ha ricordato anche quanti, condannati, detenuti, in semilibertà o agli arresti domiciliari, in condizioni di indigenza, senza un padre avvocato ed ex parlamentare ma con una famiglia a carico, non sono in grado ad esempio di provvedere all’istruzione dei propri figli in tenera età. E’ un problema? A quei bambini si dovrebbe pensare. Senza pietismi, senza spirito vendicativo.

Alla moralità dei comportamenti, mi rivolgo, infine, lasciando in disparte le leggi, la loro corretta applicazione, i diritti che ne conseguono, lasciando in disparte i processi, le sentenze, gli anni di galera. Troppe volte si è assistito, trascorso il tempo delle armi e dei morti, ad una sorta di leggiadra rivendicazione di quel passato orrendo. Basterebbe leggere alcuni libri, biografie, storie, romanzi: prima la giustificazione, poi l’esaltazione e la rivendicazione, come se nulla fosse accaduto, se quei morti fossero un’invenzione, fantasmi lontani, come se quella fosse stata una nobile guerra di liberazione.

Credo che chiusa una pagina tragica, il dolore, il lavoro, anche il silenzio dovrebbero guidare ogni atto. Talvolta è accaduto, molte altre volte no, secondo il costume tutto italiano di celebrare il pentimento, senza mai pentirsi veramente.

A Federica Saraceni vorrei solo chiedere: come si sente a rivendicare il reddito di cittadinanza, dopo aver assicurato il proprio contributo all’omicidio di Massimo D’Antona?