Chi erano quei cooperanti morti nel disastro aereo in Etiopia
“Penso a Mike e ad Herina con cui tante volte ho lavorato, parlato, scherzato… penso a Virginia, Djorje e Pilar che ho incrociato nei corridoi del WFP (World Food Programme), a Ekta e Xhen che non conoscevo ma che facevano parte della nostra grande squadra, quella del WFP”: copio da un post su Facebook della mia amica ed ex collega, Marta Laurienzo. Sono i nomi degli operatori del WFP morti nell’incidente aereo occorso in Etiopia.
Virginia e Pilar sono le due ragazze italiane del WFP i cui nomi sono stati comunicati dai notiziari quasi subito. Non le conoscevo eppure penso di conoscerle. Non solo perché al WFP ho trascorso dodici anni della mia vita professionale, anni belli passati da portavoce per l’Italia, un compito che poco prima di me aveva svolto, con amore e competenza, Paola Biocca, morta anche lei in un incidente aereo mentre andava in missione nella ex Jugoslavia in guerra.
Virginia e Pilar e gli altri sento di conoscerli perché le loro vite, pur uniche, singolari, particolari, sono simili a quelle di molti e molte altre che hanno deciso di fare questo mestiere. Chi ha scelto di essere un operatore umanitario, un cooperante, un lavoratore al servizio degli altri lo fa perché vuole spendersi per qualcosa. Sono lavori scomodi, faticosi, talvolta pericolosi, spesso incerti ma che restituiscono, a chi li fa, un senso di umanità impagabile. Perchè resistere, lavorare, rischiare in Siria sotto le bombe, o nello Yemen distrutto dal conflitto, nelle regioni africane devastate da Ebola o tra i terremotati, gli alluvionati, i senza tetto in uno dei tantissimi disastri del nostro mondo se non perché si ha voglia di essere utili, di mettersi al servizio di chi ha meno? Perché – e qui parlo dei cooperanti in generale – portare soccorso ai migranti, salvarli dalle onde del mare, assisterli, se non per questo senso di umanità profondo?
In tempi in cui va di moda demolire ogni idea di solidarietà, ogni sguardo che si allunghi oltre i confini, ogni senso di appartenenza alla comunità degli uomini, i cooperanti sono stati il primo bersaglio da colpire, descritti come opportunisti, forse avventurieri, sicuramente gente che vive bene. Demolirli, nelle loro aspirazioni e identità professionali oltre che umane, significava e significa sgretolare un’idea di comunità e un senso di solidarietà aperta al mondo. A loro invece deve andare il nostro pensiero e il nostro grazie. A Mike, a Herina, a Pilar, a Virginia, a Djorje, a Ekta, a Xhen le cui vite “normali” hanno il sapore dell’eccezionalità e ci ricordano il significato profondo di cosa sia un mondo a misura di persona. Alle loro famiglie va l’abbraccio ma anche il messaggio che le vite spezzate dei loro cari sono state vite spese bene.
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