Stadi silenziosi
e bombe carta

L’ultima bravata, sabato sera. Il pullman che riportava a casa i giocatori del Perugia è stato preso d’assalto da un gruppo di tifosi, si fa per dire, che non avevano digerito un’altra sconfitta (4-2 a La Spezia). Urla, insulti, fumogeni  e qualche pietra. Una ha spaccato il vetro anteriore del mezzo. Tutto questo vicino ad un Luna Park dove c’erano anche dei bambini.

Lo sport più seguito dagli italiani è sempre malato di violenza. Gli episodi più eclatanti sono calati (o se ne parla di meno su giornali e media), si moltiplicano invece piccoli casi gravi di una escalation impermeabile a qualsiasi misura repressiva. Aggressioni ai calciatori (tre giocatori del Taranto sono finiti in ospedale la scorsa stagione), buu razzisti negli stadi, intimidazioni (manichini impiccati con le maglie dei giocatori della Roma trovati vicini al Colosseo: una goliardata, suvvia…) , offese alla memoria (le scritte contro le vittime della strage di Superga o i cori che irridono all’Heysel) sono fatti che si ripetono ad ogni tornata. Dalla Serie A alla C. Più si scende di categoria, più la violenza cresce. Per non dire di quello che ci si vomita addosso sui social.

Sabato sera al San Paolo sono esplose numerose bombe carta contro il gabbione che ospita i tifosi ospiti. Lì dentro c’erano quelli dell’Inter che avevano invocato il solito Vesuvio purificatore. Si arriva al punto che una città una volta tollerante e ospitale come Bologna (o almeno una buona porzione di stadio, perché è ingiusto coinvolgere tutto e tutti) arrivi a fischiare il “Caruso” del “suo” Dalla e ad insultare Napoli e i napoletani ogni volta che la squadra azzurra gioca al Dall’Ara.

La Lazio, sanzionata ancora una volta per cori razzisti, ha trasferito i tifosi. La Curva Nord viene chiusa perché 2000 ultrà hanno gridato “buu” a due giocatori con la pelle nera del Sassuolo? No problem. Lotito prende i suoi irriducibili – che sono arrivati a minacciarlo nel passato – e li porta in Curva Sud, dribblando in  qualche modo la sanzione. Così facendo si tutelano coloro che non hanno colpa di cori e ululati vergognosi e che pagano, a volte con sacrifici, un abbonamento meno costoso. Molta parte del tifo laziale è stufo di certi atteggiamenti e all’Olimpico non manca qualche fischio quando partono i “buu”. Sui social e altrove è molto attivo il gruppo che si è significativamente definito “Laziale e antifascista”. Ma si premiano anche quei cretini dei razzisti (che avranno anche versato 1 euro per la causa antirazzista come lodevolmente chiedeva la società).

Negli stadi prevale l’indifferenza verso violenti, intolleranti e fanatici. Un po’ come accade per le strade quando ci si gira dall’altra parte facendo finta di non accorgersi di qualcosa di grave. La repressione serve a poco.

Forse ci sarebbe bisogno di un altro clima, fuori e dentro lo stadio. Difficile da immaginare al momento. Bisognerebbe tornare a cantare allo stadio e non stare lì a guardare in continuazione lo smartphone, distraendosi con whatsapp, scommesse e selfie. Ammiriamo quelli del Liverpool che cantano You’ll Never Walk Alone, commuovendoci. Passione e grande amore  verso la propria squadra. Sfottò e nessuna “guerra” con gli altri.

Ma gli stadi nostri, a differenza di quelli inglesi, sono vuoti, i giocatori passano in fretta, la tv ci sprofonda in poltrona.

A nessuno viene voglia di cantare. Ha scritto Michele Dalai su Sport Week, il magazine della Gazzetta dello sport: “Solo che quando uno stadio non canta più e un po’ come quando spariscono le api: il calcio non è in salute, proprio no”. Già.