Si cuoceva l’uovo sulla pala del carbone
Storie di treni e di macchinisti gentili

Durante un viaggio in treno da Napoli verso la Calabria, il vecchio Intercity ogni tanto faceva uno strano rumore, come se qualcosa si inceppasse e, poi, ripartisse. I passeggeri naturalmente si preoccupavano non poco, senza tralasciare di imprecare contro il governo che discriminava il sud dal nord, cedendo al primo i mezzi dismessi nel secondo. Finalmente, all’arrivo del controllore, qualcuno chiese la causa di quel botto: il treno era sicuro, fu la risposta, e stava compiendo il suo ultimo viaggio, destinazione Reggio Calabria, dove sarebbe stato abbandonato nell’apposito cimitero.

Un’immagine romanzesca, che richiamava storie di viaggi e viaggiatori, di emigrazioni e ritorni, di valigie di cartone e occhi asciugati con fazzoletti di stoffa. In effetti, a essere romantici ci si può guadagnare in speranza. C’erano, difatti, su quel vecchio Intercity, due possibilità: imprecare con gli altri contro politiche discriminatorie e ineguali, oppure riuscire a cogliere in questa disparità l’opportunità per rimanere intatti.

Nino di Reggio Calabria

Come erano belli i treni di una volta! Gli scompartimenti chiusi, poche persone dentro ciascuno di essi, non c’era scampo, bisognava per forza socializzare, perché rimanere in silenzio sarebbe stato imbarazzante per tutti i presenti. Ci si raccontava e poteva pure capitare di fare confidenze a uno sconosciuto, con la tranquillità di non rivederlo mai più. Al massimo, una volta arrivato a destinazione, questi avrebbe potuto dire all’amico o al familiare: sai, sul treno ho chiacchierato con un tizio o una tizia, che mi ha detto…

Sembravano diversi persino i controllori e, probabilmente, anche i macchinisti. Uno, in particolare, un tale Nino di Reggio Calabria, quando guidava il treno lungo le tratte Reggio – Sibari e Reggio – Catanzaro, era pronto a fare fermate anche non programmate, su richiesta. Vecchietti, insegnanti o ragazzi che dovevano andare a scuola, se c’era Nino, non avevano problemi, potevano scendere dove era necessario. Era costretto, poi, a recuperare, aumentando la velocità, la quale doveva fare il paio con la capacità di frenare bene. Mai avuto rapporti per eventuali ritardi, il suo treno viaggiava lo stesso sempre in orario. “Tra colleghi facevano a gara su chi frenasse meglio. – racconta la figlia Maria Teresa – Mettevano un bicchiere d’acqua al centro della macchina e, chi riusciva a fermarsi senza farla cadere, vinceva. Papà confessava di non avere mai perso”.

La sua abilità nella frenata una volta salvò la vita a una persona: a distanza, lui e l’altro macchinista avevano avvistato qualcosa di indistinto sui binari. Poteva essere un sacco, un animale o un uomo. Era un uomo. Lo capirono quando il mezzo si bloccò a due metri da lui, dopo aver avviato in lontananza la frenata. Per un treno non è una manovra facile, bisogna calcolare il punto in cui arrestarlo e la velocità con cui viaggia. L’aver salvato quel potenziale suicida fece meritare a Nino una medaglia d’oro.

Una specie di gioco

I treni di una volta erano più lenti, vero, ma per la durata del viaggio diventavano capsule di un tempo sospeso, in cui il corridoio e il singolo scompartimento descrivevano l’umanità che li attraversava o momentaneamente li abitava. Per i macchinisti come Nino erano una seconda casa. Qualche volta gli capitava di portare con sé suo figlio ancora piccolo sul treno a vapore, gli metteva in testa il cappello FS (Ferrovie dello Stato) e lo faceva guidare. C’erano delle scalette con una ringhierina, al di sopra delle quali si teneva il carbone. Bisognava portarlo dentro la caldaia e, a forza di spalarlo, la faccia diventava nera. Per quel bambino di tre anni il lavoro faticoso del papà finiva per diventare una specie di gioco: l’uovo lasciato un paio di minuti nella pala con il carbone diventava magicamente alla coque.

Nino, in seguito, cambiò lavoro, finendo tra le scartoffie di un ufficio del Provveditorato; tuttavia, a chi gli chiedeva, ormai in pensione, che mestiere avesse svolto nella vita, era pronto a rispondere: il macchinista, e che lo avrebbe fatto di nuovo, potendo rinascere.

Ma, si sa, anche gli uomini, come i treni e ogni cosa terrena, compiono un viaggio, portando con sé altri passeggeri. Il macchinista reggino non c’è più, quasi di sicuro sono state demolite anche le macchine che ha guidato per anni, benchè l’uno e le altre sopravvivano per fortuna nelle storie vissute, fatte di soste, rincorse, frenate, un capolinea. Tania Paolino